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LECTIO: IV DOMENICA DI QUARESIMA (Anno C)

Lectio
divina su Lc 15,1-3.11-32

 


Invocare
O
Dio, Padre buono e grande nel perdono, accogli nell’abbraccio del tuo amore,
tutti i figli che tornano a te con animo pentito; ricoprili delle splendide
vesti di salvezza, perché possano gustare la tua gioia nella cena pasquale
dell’Agnello. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Si
avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I
farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia
con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più
giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi
spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo,
il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e
là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando
ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò
a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno
degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i
porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano
i porci, ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse:
«Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso
il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo
figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da
suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione,
gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio
gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno
di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi:
«Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli
l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso,
ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio
era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E
cominciarono a far festa. 25Il figlio maggiore si trovava nei campi.
Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò
uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello
gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello
grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non
voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli
rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito
a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei
amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha
divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».
31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò
che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché
questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato»».

 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché
penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro
il Testo

Siamo
alla IV domenica di Quaresima e, la liturgia, ci propone alla riflessione la
parabola del padre misericordioso (o dell’amore del Padre) che accoglie tra le
sue braccia il figlio pentito che torna a casa.

Il capitolo 15 è posto al centro della sezione del viaggio di Gesù verso
Gerusalemme (9,51-19,44) e costituisce il cuore del terzo vangelo.
Nel
capitolo 15, l’evangelista Luca propone, in sequenza, tre
parabole che hanno in comune la nota della misericordia divina verso i
peccatori, tutte costruite sulla contrapposizione: perdere/trovare o
ritrovare. In altre parole, Luca presenta il volto di Dio Padre. Gesù accoglie
i peccatori e mangia con loro e questo gli procura critiche e mormorazioni. È questo
uno dei punti di costante tensione fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il
vangelo testimonia. Un primo esempio lo abbiamo già trovato nella chiamata di
Levi (5,29-32).
L’annotazione
introduttiva alle tre parabole di questo capitolo lucano ricorda che
l’accoglienza dei peccatori faceva parte del comportamento abituale di Gesù,
come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si
facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”.
La
parabola odierna, per altro, può essere vista come un commento all’espressione
di Gesù in Lc 5,32: “Non sono venuto
a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”.
Si tratta di un
tema caro a Luca che ritroviamo in molti passi del suo vangelo: 16,1-8a. 19-31;
17,11-19; 18, 1-8.9-14; 19,1-10.
 
Riflettere
sulla Parola
(Meditare)
v.
1: Si avvicinavano a lui (Gesù) tutti
i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo

L’inizio
del capitolo 15 si apre su di una scena abbastanza frequente nei racconti
evangelici (cfr. Mc 2,15ss; Lc 19.1-9; 7,34). In questo versetto “tutti i
lontani” sono chiamati e si avvicinano a Gesù. Tutti necessitano di Lui e
tutti sono ammessi ad ascoltare la sua Parola. 
Tutti
i pubblicani e i peccatori manifestano il desiderio di partecipare alla comunione
con Dio, di essere salvati, di essere discepoli. L’ascolto nel vangelo di Luca
è l’atteggiamento del credente. Ascoltare Gesù significa interiorizzare la sua
Parola: significa seguirlo, essere suoi discepoli.
v.
2: I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e
mangia con loro».
Se
al versetto precedente avevamo un modo di accostarsi alla Parola, un desiderio
del cuore, qui invece farisei e scribi ne tengono un altro: “mormorano”,
svelando ostinazione e rifiuto. Il verbo nella Bibbia si ripete spesso. Nel
Pentateuco questo verbo lo riscontriamo nel percorrere la vita del popolo
ribelle a Dio che vagava nel deserto rifiutando Dio. Lo riscontriamo anche in
altri testi biblici. Esso è figura della contestazione di Dio e del rifiuto del
suo modo di dare salvezza (cfr. «Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto?» Es
17,1-7). Mormorare vuol dire mettere in dubbio la validità di ciò che Dio ha
fatto, la validità della sua azione. È il verbo con cui l’uomo pretende di
suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la
salvezza (o il castigo).
Il
versetto raccoglie la superbia dei farisei e scribi che suggeriscono a Dio come
dovrebbe comportarsi nei confronti dell’uomo. Gesù invece si lascia avvicinare
da ogni genere di persone, compresi pubblicani e peccatori. Ciò suscita lo
sdegno e il rimprovero di farisei e scribi, piuttosto comprensibile, visto che
Gesù è un maestro e tale compagnia (per non parlare della condivisione della
mensa), sempre disdicevole, era doppiamente scandalosa. 
v. 3: Ed egli disse loro questa parabola
Se
i primi due versetti hanno fatto da anticamera a quanto Gesù sta per
raccontare, questo versetto fa’ da introito alle tre parabole: la pecorella
smarrita (vv.4-7); la dracma perduta (vv. 8-10); la liturgia propone solo la
terza: il figlio prodigo o padre misericordioso. Luca assume questo modo di
parlare riportando testi per un insegnamento prezioso. Infatti, ci
troviamo nella seconda parte del vangelo lucano chiamata “relazione di viaggio”
che si estende da 9,51 a 19,27. Qui troviamo la critica di scribi e farisei che
non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve con i
peccatori, con peccatori pubblici, che non solo hanno fatto qualche peccato, ma
sono in una condizione permanente di peccato. La parabola è una vera e propria
risposta a queste critiche e, vuole dimostrare che Dio non la pensa come gli
scribi e i farisei. Gesù, però, non parla solo a farisei e scribi, ma ad
un pubblico più ampio, come si desume dal v. 4, e naturalmente anche ai lettori
del testo lucano di tutti i tempi. È un invito ai giusti perché si convertano
dalla propria giustizia. Gesù parla non tanto per difendersi dalle loro
obiezioni, quanto per aprire loro gli occhi al mistero di Dio, di Dio misericordioso.
v. 11: Un uomo aveva due figli.
Ecco
come inizia la parabola: un uomo e due figli. L’uomo qui è Dio-Amore: è padre e
madre messo insieme (vedi: Rembrandt, “Il ritorno del Figliol prodigo”, dipinto
del 1669). È la storia di sempre. È Dio, che nel corso della lettura si
rivelerà insieme padre e madre, legge e amore. Di quest’uomo il testo non dice
nulla. Il riferimento è a Dio Padre che continua a rivelare il suo amore e agli
uomini nella loro totalità: peccatori o giusti. Due sono i figli. Due è il
principio di una moltitudine ma anche della diversificazione (cfr. Gen 4; 16;
25; 27). La diversificazione è presentata come cammino verso la maturazione
dell’essere figlio. I due figli indicano la totalità degli uomini, sia
peccatori che giusti, per lui siamo sempre e solo figli, perché Dio ha “compassione
di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,
aspettando il loro pentimento”
 (Sap 11,23).
Il
versetto non fa altro che mettere subito in chiaro la vita dei figli nei confronti
del Padre, nei confronti di Dio.
v. 12: Il più giovane dei due disse al padre:
Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta.
C’è
una giovinezza che manifesta una certa agitazione, che manifesta un
atteggiamento molto frequente anche oggi. Il figlio più giovane è il principio
della ribellione. Esige per sé: strappa e vuole dominare con la
propria volontà. Cosa chiede? “il patrimonio”. Il verbo greco usato
è ousìa, cioè il verbo che spiega il senso teologico della persona.
Quasi a chiedere sé stesso, quasi a chiedere quel mondo solo per sé. Ma non ha
capito che in quanto figlio, può realizzare la sua sostanza, la sua ousìa,
nella misura in cui la orienta nell’unione con il Padre.
Ed
egli divise tra loro le sue sostanze.
Il
Padre è in assoluto silenzio. Rimane sempre Padre. Si “annulla” di fronte alla
tua scelta e divide le sue sostanze (alcune norme regolavano il diritto di
successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora
in vita il padre: cfr. Dt 21,17; Sir 33,20-24), non è un antagonista.
Dividere
le sostanze è già un atto di misericordia pretendere tanto e per di più con i1
Padre ancora in vita, è un palese atto di ribellione, impensabile per la
cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un “avventato” uno “scapestrato”.
E la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (cfr. Dt
21,18-21).
v.
13: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il
suo patrimonio vivendo in modo dissoluto

Questo
figlio giovane raccoglie se stesso per stare lontano dal Padre e parte per un
paese lontano, pagano. Lontano vuole dire: che non ci arrivi proprio niente di
suo padre, né una notizia, né un’ombra, né un richiamo, ma in cui possa
effettivamente fare quello che vuole; e lo fa in quel modo che il Vangelo dice:
vivendo da dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”. In
questo paese il giovane sperpera se stesso. Gesù ricorda che “chi non raccoglie con Lui
disperde”
(Lc 11,23). Senza amore non si può raccogliere nulla, si
vive da dissoluto. L’etimologia del termine ci fa capire lo stile di vita
assunto che rompe, scioglie tutto, anche se stesso. Invece, chi vive con Lui,
del Suo amore, è come un potente inceneritore dei propri detriti e fuoco che
ravviva ogni potenzialità buona.
v. 14: Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande
carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
La
volontà di essere padrone, lo conduce a sperperare tutto. Se a casa del Padre
si sentiva schiavo adesso lo sta diventando. È la catastrofe. Una non rara
carestia locale, che Luca aggrava con l’aggettivo “grande” (cfr. Gen
47,13), fa sentire il giovane “nel bisogno” in uno stato di
indigenza. Il termine greco “bisogno” esprime la mancanza di viveri,
non c’è nulla per nutrirsi, rimane solo la morte.
Il
giovane che da padrone volle passare da un ipotetico schiavo adesso lo è
realmente. Si deve sottomettere al bisogno.
vv. 15-16: andò a mettersi al
servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a
pascolare i porci

La
condizione del giovane diventa così grave al punto che il giovane decade
proprio dalla legge e dalla religione del suo popolo: si attacca (kollasthai) ad un pagano, diviene il suo schiavo custodendo l’animale impuro per eccellenza (Lv 11,7). Il
porco è per gli ebrei simbolo di impurità e quindi non viene allevato da loro;
andare a pascolare i porci è il massimo del degrado, peggio di così non poteva
finire. Un detto rabbinico dice. “Maledetto l’uomo che alleva porci”. Questo vuole
dire: da figlio è diventato schiavo; l’autonomia che lui cercava non l’ha in
realtà conquistata. Quando Israele si illude di trovare la sua libertà negli
idoli, in realtà trova semplicemente la schiavitù (cfr. Ger 2,20-22).
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si
nutrivano i porci

La
fame ha creato un vuoto fuori e dentro di lui. Gli fa capire che fece una
scelta sbagliata. Che non è stato capace di valutare le cose. Questo è l’inizio
di un cammino verso la casa del Padre. Dice un antico detto ebraico: «Quando
gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».
ma nessuno gli dava nulla. 
In
quest’ultima parte di questo versetto, ritorna con altre parole quanto abbiamo
riscontrato nei vv. 12-13: “il raccogliere se stesso”. La
sofferenza del giovane figlio sembra dovuta più alla mancanza di relazioni
personali che a quella del cibo e delle cose. Lontano dal padre, il figlio è
abbandonato anche dagli uomini.
v.
17: Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in
abbondanza e io qui muoio di fame!
Si
noti, come in questo monologo, Luca non esprime grandi sentimenti di
pentimento; è una conversione a sé, più che al padre, intuisce il vero proprio
interesse: “salariati…di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se
non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Ha ancora
una falsa immagine del Padre.  
Questo
ritornare in sé non è altro che l’esperienza del peccato a cui si è consegnato
e che ne è diventato padrone, il proprio dio. Il figlio giovane constata che la
realtà non era come pensava. Continua a fare il soliloquio esprimendo se stesso
e non il pentimento. Guarda solo l’indigenza e non la conversione. I salariati
sono il paragone su cui confrontarsi e non il padre.
v. 18: Mi alzerò.
Qui
l’inizio del cammino. Alzare, anistēmi è uno dei due verbi
(l’altro è egeirō svegliare) usati
dal NT per la risurrezione. Qui indica l’inizio di una nuova azione, si
potrebbe tradurre con: apprestarsi, accingersi.
andrò da mio padre
È un
nuovo viaggio, nella consapevolezza del proprio peccato. Esperienza di
smarrimento e confusione che provoca vergogna ma anche ravvedimento (cfr. Ger
31,19). Quest’esperienza è verso la casa del padre- Il giovane figlio usa
ancora la parola “padre” in una maniera inconscia in quanto non si
riconosce figlio.
e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e
davanti a te
.
È
il riconoscimento delle colpe. Non ha infatti una colpa sola, ma parecchie:
aver chiesto la divisione dell’eredità; l’essere andato lontano; l’aver
dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro
umiliante.
Il
“contro il Cielo” è espressione biblica (cfr. Es 10,16) ed è l’unico
riferimento che abbiamo di Dio. San Paolo, però, spiegherà che ogni paternità
discende dall’alto (cfr. Ef 3,15).
v. 19: non sono più degno di essere
chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati
La
conversione non è un percorso facile, anzi è impossibile che l’uomo ritorni a
Dio con le sue sole forze interiori. Infatti, il giovane continua a non
riconoscersi figlio e pone la sua speranza in una punizione che gli sembra
possibile: tra i lavoratori salariati di casa sua.
Luca
descrive queste parole come una sorta di supplica ed usa il verbo “fare” (poiēo) per dire trattami, una
supplica che possiamo leggerla così: “fammi nascere ancora” (cfr. Gv 3,1-11). È
la rinascita nella dignità battesimale descritta con molti particolari. Qui si
incontra il desiderio dell’uomo con il desiderio di Dio.
v.
20: Si alzò e tornò da suo padre.
Se
fin d’ora abbiamo parlato del figlio adesso subentra il padre in una scena
travolgente. Il padre qui è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per
rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento. Per
capire, l’evangelista usa per noi dei verbi: i verbi dell’amore.
Quando era ancora lontano il padre lo vide. 
C’è
una lontananza descritta come “dimora” che il figlio giovane scelse per
affermare unilateralmente la propria volontà. La sacra Scrittura descrive
questa lontananza come quel “giardino” in cui il Padre scende e
chiede: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9).
Il
lontano è la situazione di peccato e il vedere del Padre è il vedere dell’amore
che scruta le profondità della notte; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo
alla sua vista (Sal 139,11). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto
del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo
come quello di una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20;
Sal 27,10; Os 11,8).
commosso gli corse incontro
La
compassione è il verbo che definisce la figura del padre. In lui “gli si sono
mosse dentro le viscere”. Letteralmente “fu colpito alle viscere”. Il verbo
greco rimanda alle viscere materne, un sentimento attribuito spesso Dio
nell’A.T.; per il N.T. vedi Mc 1,41; 6,34; 8,2, Lc 7,13; 10,33). Si mette a
correre: un comportamento non adatto per la sua età e autorità ma altamente
espressivo (At 20,37; Gen 33,4; 45,14-15; Tb 11,9). In questo verbo
abbiamo l’aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che
è misericordia. In Lc 6,36 Dio ci è presentato come “padre misericordioso”,
cioè insieme come padre e come madre (Luca usa l’aggettivo “oiktìrmon
che traduce l’ebraico “rahamin”, che indica il ventre, l’utero).
gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Sembra
che i ruoli si invertano. Il padre patisce la distanza e corre incontro al
figlio che letteralmente fa “cadere addosso”. Una storia analoga la troviamo in
Giuseppe d’Egitto, dove riscontriamo il dramma del figlio amato. Al termine del
dramma Giuseppe si getta al collo del vecchio Giacobbe (Gen 46,29).
Questo
gettarsi al collo interrompe l’idea del figlio. Il padre è stanco di avere dei
servi vuole avere dei figli. Il gesto del bacio è il segno di perdono (cfr. 2
Sam 14,33). L’amore è una relazione tra persone, che si compie nella comunione
e nell’unione. Questi sono gesti che nell’AT indicano il perdono e la
riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata
immediatamente ristabilita.
vv. 21-24: Il figlio gli
disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di
essere chiamato tuo figlio».
Il peccato si fa pesante. Essere figlio non è questione di
dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere
al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di
nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore
necessario e gratuito. La conversione non è diventare “degni”, o
almeno “migliori” o “passabili”, per meritare la grazia di
Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello.
Il
padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua
confessione; non dice nulla al figlio, ma l’interruzione nella dichiarazione da
parte del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la
conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la
misericordia del padre.
Il vestito più bello è quello della veste nuziale, il
“biglietto d’ingresso” al banchetto nuziale (cfr. Mt 22,11) e con il
segno del vestito, il “servo” vestito da figlio è tra i segnati con
il segno della salvezza (cfr. Ez 9,4). È lo stato creaturale di coloro che
anelano ad essere rivestiti di Cristo (cfr. Rm 13,14).
mettetegli l’anello al dito e i
sandali ai piedi
.
L’anello è segno di potere (cfr. Gen 41,41-42; Est 3,10;
8,2 ed anche Gc 2,2) e in particolare segno della filiazione, segno di quel
“mettimi come sigillo sul tuo cuore” (Ct 8,6) per esprimere l’unione
indissolubile.

I sandali ai piedi sono segno della nobiltà e della famiglia (gli schiavi
andavano a piedi nudi), garanzia che nulla li può separare. Il Padre e il
Figlio sono una cosa sola (Gv 10,30).
Prendete il vitello grasso,
ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa
.
C’è qui un’allusione all’eucarestia. Il sacrificio grasso (lett.
di grano) di cui si parla è quel sacrificio sano (v. 27) che segnerà il tempo
messianico (cfr. Is 25,6). Questo “vitello di grano” è l’Agnello immolato per
quell’amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
La festa è un evento particolare, una nuova Pentecoste piena
di senso, piena di Dio. La Bibbia legge la festa come una realtà libera con una
sua regola interiore: il luogo dell’amore di quelle persone che aderiscono fino
a quel “gettarsi al collo”, un amore nella verità.
v.
24: perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è
stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Qui
abbiamo la motivazione. È il canto alla vita del figlio ritrovato, della
relazione nuova, filiale e fraterna. I termini “morte e vita”
lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata
prima e ora è reintegrata in un contesto di libertà. I verbi “perdere e
ritrovare” collegano questa parabola alle altre due precedenti nelle quali
si parla della pecora e della dramma perduta e poi ritrovate. Anche in queste
due parabole compare l’ordine di rallegrarsi e far festa.
vv.
25-27: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a
casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa
fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha
fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
Qui
inizia apparentemente un’altra storia, infatti sono l’apice del vero incontro,
con chi deve essere ritrovato. C’è un figlio di cui fino adesso ne abbiamo
parlato, e di cui il figlio giovane ne ha prestato il nome. È il figlio maggiore.
Chi è il figlio maggiore? Nella Bibbia il maggiore è Israele, il primogenito di
Dio, figura di ogni giusto ma anche nella vita di tutti i giorni, il figlio
maggiore è colui che vive nel giusto o che crede di essere nel giusto e va in cerca
dei ripari. Il suo interesse è il luogo dove si lavora il suolo, dove si
fatica, si suda, su procura il cibo (cfr. Gen 3,19). Questo luogo è il campo,
il luogo del serpente biblico (Gen 1,26): è il luogo che rimane fuori
dall’amore del Padre (il figlio maggiore non dice mai Padre). Questo giusto,
però, non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga
minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
v.
28: Egli si indignò, e non voleva entrare.
Il figlio maggiore sconoscendo la gioia del padre, rifiuta
l’identità di figlio. La sua nuova identità è l’indignazione.  Non accetta
il modo di fare del Padre, come Giona che si contristò mortalmente al vedere un
Dio simile (cfr. Gio 4,3.8.9) e non volle entrare per la sua dura ostinazione.
È il passaggio per la porta stretta della misericordia ove i peccatori passano
tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono. Il Salmista ricorda:
“non irritarti per chi ha successo” (Sal 37,7) perché l’ira dei
popoli contro Dio colma di superbia e presunzione (Ap 11,18).
Suo padre allora uscì a
supplicarlo

Il Padre uscì per consolarlo. Fa’ il primo passo
verso il figlio, perché desideroso della comunione con tutti i suoi figli.
L’amore continua sempre a soffrire perché ci sta un’assenza: c’è sempre
qualcuno che è lontano. Il Padre esce dal luogo della festa. E’ il pastore che
lascia le novantanove pecore per andare incontro all’unica pecora smarrita
(15,3-7).
La supplica di cui si parla non tanto come preghiera ma come
un “chiamare a sé”, un “dire dolci parole”. Anche qui
possiamo cogliere il muoversi a compassione.
v. 29: Ma egli rispose
a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo
comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.  
Qui sta l’identità del figlio maggiore: un riconoscersi servo
e ribelle come il figlio più giovane, un affermare la sua coscienza
regolarmente fedele e rispettosa senza sciupare nulla (cfr. Mt 25,24-29) come
il pio israelita (Lc 18,9ss).
Anche questo figlio non apprezza il padre e il senso del suo
vivere con lui. Gli amici sembrano valere ai suoi occhi più della comunione col
Padre. Dimentica però che la vera amicizia è quell’amore maturato sulla scia
dell’essere figlio. Appare, di conseguenza, anch’egli come il fratello minore,
più centrato sui beni paterni. Il rapporto con il padre, e sul piano religioso
con Dio, è di carattere commerciale: do
ut des
, io ti do e tu mi devi dare, ha sempre ricevuto quello che gli
spettava come stipendio, ma niente di più di quello che va al di là del
gratuito.
Inoltre,
il figlio maggiore qui può essere visto come il rappresentante di una
religiosità seria e impegnata ma di scambio, dove Dio è datore di lavoro e
l’uomo solo un operaio, per cui ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto
quello che non entra in questo sistema di scambio economico e preciso, diventa
incomprensibile e “non si vuole entrare” nell’amore del Padre.
v. 30: Ma ora che è tornato questo tuo
figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai
ammazzato il vitello grasso».
Il v. 1 recita: “si avvicinavano a Gesù tutti i
pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre i farisei e gli scribi
mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”
.
Nelle parole del figlio maggiore si rinnova il pensiero degli scribi e dei
farisei. Gesù è motivo di scandalo perché profana tutto ciò che è santo e si
mescola con ciò che è impuro. Del resto, Luca ci ha già riferito il giudizio
circolante su Gesù: “Ecco un mangione e un beone, un amico dei
pubblicani e dei peccatori”
. (7,34).
In questo versetto si esclude la paternità e la figliolanza.
Anche se si sta rivolgendo al padre segna una rottura con lui, una
distanza e una volontaria cesura, mentre il servo aveva detto tuo padre e tuo
fratello.
vv.
31-32: Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio
è tuo
Il
padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della festa colui che è
rimasto sempre impigliato nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza
di una religione rigida che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e
soprattutto perdono. Lo chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante
della religione: “tu hai un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel
suo cuore, nelle sue attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci,
ma un figlio che gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni,
abbracciami, baciami ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello,
nella festa del perdono. Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato;
come hai un padre, una casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
bisognava
far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in
vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il
padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del secondogenito e
riconferma la sua gioia. La sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si
chiude il racconto, rimanda al finale delle due parabole precedenti in cui si
assicura la gioia celeste per il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La
Parola del Padre ci conduce a deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla
nostra religione fatta di leggi ed entrare in una religione imperniata
sull’amore per cui il padre accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo.
Senza condizioni, perché sono suoi figli e basta.
La
parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no
a far festa. Volutamente Gesù lascia le cose in sospeso: ricordando che la
parabola è rivolta in primo luogo a farisei e scribi, e ad ogni lettore.
A
Gesù sta a cuore far intravedere ai suoi ascoltatori di ieri e di oggi,
peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni
uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede
nella parabola.
La
parabola possiamo concluderla così: “Figlio, ritorna anche tu!”. E il
vangelo non dice se il figlio ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio
è giustificato dal fatto che la risposta deve essere ancora data!

Ci
fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il
Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La
Parola illumina la vita e la interpella

Cosa mi dice la parabola a riguardo del rapporto con Dio?
Come mi interpella nel mio cammino quaresimale di conversione?
Il mio rapporto di fede con Dio è più simile al lavoro di un servo o all’amore
di un figlio?
Come intendo i miei rapporti con gli altri alla luce del testo di Luca? Sono
come il figlio maggiore: invidioso dei peccatori che si convertono? Desidero
entrare alla festa di Dio? Voglio continuare a non capire la mentalità, il
cuore di Dio?
Il desiderio di comunione da parte del Padre, cosa dice questo alla mia
esperienza di fede? 
Non sappiamo quale decisione avrà preso il figlio maggiore, e io che ora sto
meditando questo brano cosa farò?
 
Rispondi
a Dio con le sue stesse parole
(Pregare)
Benedirò
il Signore in ogni tempo,
sulla
mia bocca sempre la sua lode.
Io
mi glorio nel Signore:
i
poveri ascoltino e si rallegrino.
 
Magnificate
con me il Signore,
esaltiamo
insieme il suo nome.
Ho
cercato il Signore: mi ha risposto
e
da ogni mia paura mi ha liberato.
 
Guardate
a lui e sarete raggianti,
i
vostri volti non dovranno arrossire.
Questo
povero grida e il Signore lo ascolta,
lo
salva da tutte le sue angosce. (Sal
33)
 
L’incontro con
l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Nel
gesto del padre, nel comportamento dei figli, rileggiamo la nostra storia
personale per una continua conversione e sarà l’inizio della festa.


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