Teresa Martin (1873-1897)
“Nacque ad Alençon (Francia) il 2 gennaio 1873. All’età di quindici anni, compì con i suoi familiari ed altre persone un pellegrinaggio a Roma e, nell’udienza concessa da papa Leone XIII, osò chiedere il permesso per farsi carmelitana anche se ancora non aveva l’età prescritta. Nel 1888 conseguì, infine, di realizzare il suo sogno, ricevendo l’abito carmelitano. Si esercitò in modo particolare nelle piccole cose della vita quotidiana, con umiltà, semplicità evangelica e confidenza in Dio e procurò di inculcare, con l’esempio e la parola, queste virtù nelle sue consorelle, specialmente nelle novizie. Scoperto il suo posto nel cuore della Chiesa, offrì la sua vita per la salvezza delle anime e per l’edificazione della Chiesa. Morì di tubercolosi il 30 settembre 1897.
Fu canonizzata da Pio XI nel 1925 e proclamata Patrona delle missioni nel 1927; Dottore della chiesa nel 1997 da Giovanni Paolo II”.
(Emanuele Boaga, O. Carm., Con Maria sulle vie di Dio, p. 293).
Si festeggia la sua festa il 1 ottobre.
“La figlia più conosciuta di S. Teresa di Gesù è la santa di Lisieux. Pur facendo parte delle carmelitane scalze, il suo insegnamento ed esempio sono validi non solo per tutte le monache carmelitane, ma anche per tutti i cristiani. Andò “contro” la spiritualità dei suoi tempi che tendeva a vedere Dio come un rigido “sorvegliante” e la vita spirituale come una serie di “montagne” da scalare. S. Teresa capì che Dio le era Padre, che l’amava infinitamente e desiderava far di lei una santa. Era consapevole di non avere in sé la forza di scalare le impossibili montagne dell’altezza spirituale, ma sapeva che Gesù stesso l’avrebbe sollevata. Era necessaria unicamente una grande fiducia in Dio. Con questa fiducia, Teresa divenne una grande santa ed oggi è riconosciuta Dottore della Chiesa. Da sempre voleva essere missionaria e possiamo veramente affermare che questa sua volontà sia stata letteralmente realizzata ai nostri giorni, dal momento che le sue reliquie sono venerate da milioni di persone in molti paesi di tutto il mondo.
La vita in un monastero di clausura può apparire molto restrittiva, ma S. Teresa insegnò, col suo esempio e la sua “piccola via”, che è possibile testimoniare il nostro amore per Dio in tanti modi, amore che Dio userà per la salvezza di tutti. La santa di Lisieux portò a un nuovo livello ciò che S. Teresa di Gesù per prima aveva insegnato: «Dio non guarda tanto alla grandezza di ciò che noi facciamo, quanto all’amore col quale lo facciamo» (Castello Interiore; 7, 4, 15). La monaca carmelitana è chiamata a vivere interamente in Dio per la salvezza del mondo. Facendo le piccole cose con grande amore diventerà ciò per cui è stata creata, apostolo ardente dell’amore di Cristo fino ai confini della terra (Joseph Chalmers, O. Carm., Nella terra del Carmelo, 33-34).
“Ah, lo so: tutto il mondo mi amerà”, sussurrò la ventiquattrenne Thérese dal suo letto di malattia, poco tempo prima di morire. E non si sbagliava. Dalle sue pagine lo Spirito continua a soffiare, conducendo al largo – verso la maturità di Cristo – generazioni di ragazzi, giovani, adulti. Audace e decisa nel suo “eccomi” a quindici anni, tenace e fedele nelle prove e nelle fatiche che il cammino dietro Gesù presenta, la giovane carmelitana di Lisieux parla con efficacia, verità e dolcezza all’uomo di ieri, come a quello di oggi. Dobbiamo molto a studiosi e teologi che, gradualmente e con non pochi sforzi, ci hanno consegnato i suoi scritti e il suo messaggio nella loro purezza, liberati finalmente da elementi “aggiunti”, troppo a lungo responsabili di aver diffuso un’immagine “adattata” della santa, incatenandone il tesoro spirituale e la testimonianza profetica. In lei troviamo, infatti, la saggezza dello scriba – familiare di Dio e della Parola – che sa “estrarre dalle sue ricchezze” accumulate “cose nuove e cose antiche”. Nel suo percorso ci sono, dunque, la fede trasmessa dalla famiglia, gioie e fragilità dell’infanzia, le angosce delle separazioni affettive, linguaggio e insegnamenti del suo tempo; ma, in questo “vaso d’argilla”, appare una “potenza straordinaria”, dono di Dio e accolta con cuore libero che ha agito, trasformando i suoi deserti e le sue lacrime nei sentimenti di Cristo: “Sentii che la carità mi entrava nel cuore, con il bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri e, da allora, fui felice”.
La sua “corsa da gigante” ci mostra inizialmente una Teresa quattordicenne, “pescatore d’anime”, che lotta per raggiungere il Carmelo, abbandonandosi poi come una “pallina” nelle mani di Gesù, fino a che Egli colmò tutti i desideri del suo cuore; “entrata nell’arca santa, con che gioia profonda mi ripetevo: ‘Sono qui per sempre, per sempre!’….”. Questa felicità non era effimera, non doveva affatto svanire con le “illusioni dei primi giorni”. Le illusioni: “Il Signore mi ha fatto la grazia di non averne alcuna”. Incontra, infatti, “più spine che rose” , ma vuole farsi santa e non indietreggia mai nell’amore, nemmeno davanti al calice amaro e umiliante della malattia del padre: allora si manifesta il senso profondo del nome “Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo”: come chiamata non solo a essere “enfant”, cioè bambina-figlia a somiglianza di Gesù, ma anche a vedere con occhi penetranti “le bellezze nascoste” del suo Volto sfigurato, specchio di ogni uomo segnato dal dolore.
“Poiché Gesù è salito al cielo, posso seguire solo le tracce che egli ha lasciate, ma sono tracce così luminose, così profumate! Se appena do un’occhiata al Santo Vangelo, respiro il profumo della vita di Gesù e so da quale parte correre”. Considerando la realtà ecclesiale e carmelitana in cui storicamente si muoveva, non finisce di meravigliare l’attenzione appassionata con la quale accoglieva la Parola di Dio: “trovava le sue delizie nella Sacra Scrittura, non era mai in imbarazzo nello scegliere dei passi più idonei per le anime, dal momento che ella ne faceva ogni giorno l’alimento della sua vita interiore” (Processo dell’Ordinario, 330). Alla luce di questa Lampada, vede chiaramente un Dio che ama fino a dare il suo unico Figlio; un Padre che, come una Madre, ci consola. Nell’offerta all’Amore Misericordioso del Signore (non – come usava nel Carmelo francese – alla sua Giustizia), la monaca ventiduenne supplica: “Desidero farmi santa, ma sento la mia impotenza e ti chiedo, o mio Dio, di essere tu stesso la mia santità”. Lasciarsi sollevare da Gesù stesso (“l’ascensore che mi dovrà far salire fino al cielo, sono le tue braccia!”), consumare incessantemente e inondare dai “flutti di tenerezza” racchiusi in Lui, è la “piccola via”: una strada per tutti, un cammino di pace anche nella notte, quando “il pensiero del cielo non è che lotta e tormento”. La tbc avanza, mentre Teresa combatte perché vuole credere, nonostante davanti a sé veda un muro “che si innalza e copre il firmamento stellato”. Proprio lei, la minore delle sorelle Martin, “reginetta di papà”, carmelitana chiamata persino a collaborare nella formazione delle novizie e unita spiritualmente a due sacerdoti missionari, questa ragazza che non ha negato nulla al buon Dio, ora viaggia “sotto una tetra galleria” e circondata da tenebre e nebbia fitta. Eppure è “veramente felice di soffrire” e “accetta di mangiare, per tutto il tempo che Tu vorrai, il pane del dolore, e non vuol davvero alzarsi, prima del giorno da Te segnato, da questa mensa colma di amarezza, alla quale mangiano i poveri peccatori…”.
Adesso, infatti, Teresa conosce la “sincerità” di chi non ha la fede e, mentre le forze l’abbandonano ed è costretta a passare dalla sua cella all’infermeria, raccoglie tutte le energie per vivere nella sua carne la preghiera stessa di Gesù: “Padre santo, io desidero che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me, dove sono io”. Con mano tremante conclude a matita il suo racconto autobiografico: “Sì, lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei con il cuore spezzato dal pentimento a gettarmi nelle braccia di Gesù, perché so bene come Egli ami il figlio prodigo che ritorna a Lui. Non è certo perché Dio, nella sua preveniente misericordia ha preservato l’anima mia dal peccato mortale, che io mi elevo a Lui attraverso la fiducia e l’amore”. Con questa parola terminano i suoi tre manoscritti, ma soprattutto così si chiude la sua ultima giornata terrena, prima di entrare nella luce: “Oh! Io l’amo!…Dio…ti amo!”.
La sua missione stava per cominciare – lo aveva presentito – quella, cioè, “di far amare Dio come lo amo io”. Esaudita nelle sue molteplici aspirazioni, per le quali voleva essere tutto, fu dichiarata da Pio XI Patrona delle missioni e, da Giovanni Paolo II, Dottore della Chiesa: la sua scienza e intelligenza spirituale hanno donato alla Chiesa che chiamava “mia Madre” riflessioni e linee profondamente evangeliche, allora insondate. È corsa talmente in avanti, da avvicinarsi in maniera incredibile alle conquiste teologiche del Concilio Vaticano II e alla sensibilità attuale. Non possiamo dimenticare, a questo proposito, la sua sincera e dolce critica alla mentalità mariana del suo tempo: “Perché una predica sulla santa Vergine mi piaccia e mi faccia del bene, deve mostrare la sua vita reale, non quella supposta. Ce la mostrano inavvicinabile, dovrebbero invece mostrarla imitabile, dire che viveva di fede come noi, portando le prove del Vangelo, dove leggiamo: ‘essi non capirono’…”.
Semplice e concreta – come la fraternità carmelitana in cui quotidianamente era impegnata e provata – S. Teresa continua a ripetere il comandamento antico e nuovo di Gesù: “Non si tratta più di amare il prossimo come se stessi, ma di amarlo come lui, Gesù, lo ha amato, come Lui l’amerà fino alla consumazione dei secoli”; perciò: “l’amore del prossimo è tutto sulla terra, si ama Dio nella misura in cui lo si pratica”.