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LECTIO: II DOMENICA DI NATALE Anno A

Lectio divina su Gv 1,1-18
Invocare
Padre di
eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della
creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in
mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il
mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi
del regno.
Per Cristo
nostro Signore. Amen.
In ascolto della Parola (Leggere)
1 In principio era il Verbo, il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era in principio presso
Dio: 3 tutto
è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto
ciò che esiste. 4
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce splende
nelle tenebre, ma le tenebre non l`hanno accolta. 6 Venne un
uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. 7 Egli
venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti
credessero per mezzo di lui. 8
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. 9 Veniva
nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe. 11
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l`hanno accolto. 12 A quanti
però l`hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che
credono nel suo nome, 13
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio
sono stati generati. 14
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la
sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. 15 Giovanni gli
rende testimonianza e grida: “Ecco l`uomo di cui io dissi: Colui che viene
dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me”. 16 Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 17 Perché
la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di
Gesù Cristo. 18 Dio
nessuno l`ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato.
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola
di Dio
Dentro il Testo
Il Quarto Vangelo si apre con questo
straordinario brano poetico, definito un inno alla Parola di Dio che si rivela
e opera nel mondo. È una sintesi meditativa di tutto il mistero del natale,
perché il bambino di Betlemme è la rivelazione di Dio, la verità di Dio e
dell’uomo, e riflettendo su questo evento siamo in grado di capire chi è colui
che nato e chi siamo noi.
Il prologo di Giovanni è diverso dagli altri prologhi del
N.T. (Lc 1,1-4; Mc 1,1-13; At 1,1-2) per il suo carattere innico-teologico. Si
pensa che il redattore del quarto Vangelo abbia utilizzato un preesistente inno
cristologico al Lògos incarnato.
Proprie dell’evangelista sarebbero le aggiunte. Questi adattamenti appaiono
evidenti nei vv. 6-8 e 15, che preannunciano il ruolo storico-teologico di
Giovanni Battista, e nei vv. 12c-13, che sviluppano con terminologia tipica del
redattore il v. 12ab.
Il prologo ha una struttura chiasmatica attraverso la quale,
con un movimento parabolico, viene descritta la missione teologica del Lògos incarnato. Una sintesi di questo
movimento di pensiero del prologo possiamo trovarlo in Gv 16,28: “Sono uscito
dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo e vado al Padre”; e
ancora prima in Is 55,10-11.
I primi tredici versetti, che
costituiscono la prima parte dell’inno, ci presentano il Verbo dalla sua
origine: siamo nell’ambito della relazione tra le Persone Divine. La Parola di
Dio, ad un certo momento, entra in contatto col mondo, con l’umanità, e cioè
con noi, incarnandosi. Tale evento viene cantato in una irruzione di gioia al
versetto 14, in cui comincia la seconda parte del Prologo (vv. 14-18). Tuttavia
questo dono di Dio, totalmente gratuito, molti non lo vedono o lo rifiutano. Ci
sono però anche coloro che se ne accorgono e lo accettano. Per mezzo
dell’accoglienza del Verbo è possibile diventare figli di Dio: la «buona
novella» della figliolanza divina si trova proprio al centro dell’inno (vv. 12-13).
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il
Verbo era Dio.
Il vangelo di Giovanni inizia col
dire “in principio” (en archè),
riconducendoci all’AT dove i temi di
creazione, di luce e tenebre sono ripresi dalla Genesi (1,1). Questo non è
però, come nella Genesi il principio della creazione, perché la creazione viene
nel v. 3. Il “principio” si riferisce piuttosto al periodo prima della
creazione ed è una designazione, più qualitativa che temporale della sfera di
Dio.
Nelle parole “era il Verbo”,
troviamo l’affermazione di un’esistenza che precede questo inizio: fin da
questo principio «esisteva» il Verbo. Parlando di preesistenza, san Tommaso
spiega nella Summa Teologica che si vuole esprimere metaforicamente la verità
che il Verbo è Dio.
L’autore del quarto Vangelo sembra
collegarsi a entrambe le tradizioni bibliche: Cristo è la Parola definitiva e la
manifestazione perfetta della Sapienza.
La
definizione di Verbo per la persona di Gesù è specifica degli scritti giovannei
che la contengono sia in forma assoluta (Gv 1,1.14) sia con delle
specificazioni (Verbo della vita in 1Gv, 1, 1 e Verbo di Dio in Ap 19,13).
Giovanni riformula l’identità del Verbo alla luce di categorie
veterotestamentarie.
«Verbo»: è la «Parola», cioè il mezzo
attraverso il quale ci si esprime. Nell’ambiente filosofico greco, il termine
indica la «parola che porta un senso», che lo svela pienamente. Nell’ambiente
giudaico, la parola, «dabar», come tale appartiene alla sfera di Dio; essa
rivela l’essenza stessa di Dio. La preposizione greca pròs esprime l’idea di
innanzi, presso, in relazione a e viene usata per indicare l’esistenza del
Logos in relazione a Dio. Si può intendere: Era in compagnia di Dio (dando a
pròs un senso statico); oppure: Era verso Dio, cioè in relazione con Dio (in
questo caso si conserva a pròs il suo senso di moto). La TOB preferisce questa
seconda traduzione.
Nella formulazione originale pròs tòn thèon l’articolo (tòn)
specifica che si tratta del Padre. Il Verbo partecipa della sua vita come
persona distinta orientata a lui.
In queste pochissime parole Giovanni
descrive un accenno al mistero della relazione Padre-Figlio, nell’unicità di
Dio. Theòs én o’ logos: l’uso di
theòs, senza articolo, esprime la partecipazione alla natura divina. Il Logos
possiede la natura divina pur non essendo il solo ad averla.
v. 2: Egli era in principio presso Dio.
Con la
ripresa dell’espressione «in principio» l’attenzione del lettore viene
orientata nuovamente verso la creazione. Giovanni ripetendo che il «Verbo era
presso Dio» sembra voler sottolineare che l’atteggiamento fondamentale del
Verbo, il suo essere verso Dio, dovrà servire da modello rispetto a tutto ciò
che nascerà mediante la «Parola».
v. 3: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui
niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
Dopo aver
presentato il Verbo nella sua relazione immediata con Dio, ora lo sguardo è
concentrato sulla relazione del Verbo con il mondo. Già l’AT collegava la
creazione del mondo alla parola di Dio o alla sapienza divina. Tutta l’attività
creatrice è opera del Padre e del Figlio.
L’evangelista
afferma che tutto avviene per mezzo del Verbo, l’evangelista vuole dire anche
che tutto mediante il Verbo prende senso.
Le parole greche “senza di Lui”
possono avere il senso “al di fuori di Lui”. L’idea è analoga a quella
riportata in Gv 15,5: “senza di me potete fare neppure una cosa”. Ciò che in
seguito si dice in riferimento alla salvezza, qui si afferma in relazione alla
stessa esistenza.
Attraverso
quest’espressione negativa viene rafforzato il pensiero precedente. Il mondo
sia fisico che umano riflette Dio Padre in quanto è fatto secondo il Figlio di
Dio incarnato, che è appunto l’immagine di Dio. Pensiamo all’armonia, alla
bellezza.
v. 4: In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini.
In questo versetto, il prologo
comincia a descrivere il rapporto tra Lògos
e umanità.
È
importante collegare questo versetto con quanto detto prima: dopo aver
dichiarato la presenza efficace del Verbo in tutto ciò che è stato fatto,
l’opera del Verbo viene ora caratterizzata dal dono della vita. Possiamo
tradurre questo versetto così: Ciò che aveva avuto origine in lui (nel Verbo)
era vita. La vita di cui Giovanni parla nel suo vangelo non è semplicemente
quella fisica (biòs), ma una vita qualitativamente superiore e piena («zōē»).
In altri passi del Vangelo viene anche identificata con Gesù stesso.
L’identificazione di questa vita con la luce degli uomini nella riga seguente
fa pensare che si intenda vita eterna.
L’uso del termine “luce” era uno dei modi consueti per
designare nell’ambiente giudaico la
Legge
di Mosè. La legge come luce è norma che guida la
condotta dell’uomo (cfr Sal 119,105; Sap 8,4; Nm 6,25). Il detto di Giovanni:
“la vita era la luce degli uomini” inverte la concezione rabbinica, che avrebbe
menzionato la frase all’inverso: la luce (la legge) è la vita dell’uomo.
Il Verbo,
entrando in rapporto con gli uomini, manifesta ciò che egli è per essi, cioè la
luce, di conseguenza, risplende come luce di vita. Grazie al Verbo gli uomini
vedono la luce che li guida alla pienezza della vita. Qui sono anticipate le
parole di Gesù: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà nelle
tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
v. 5: La
luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.
Tutta la frase è uno sguardo
complessivo sull’opera del Verbo e dei suoi avversari. Giovanni medita sulla
luce che è il Verbo nella sua funzione d’illuminare tutta l’umanità che giace
nelle tenebre.
Con il termine “tenebra” s’intende
prima di tutto il mondo degli uomini lontano da Dio, cioè non ancora illuminato
dalla luce divina. Una traduzione di “tenebra”, in linguaggio esistenziale,
potrebbe essere il disorientamento interiore, cioè quando si è confusi e non si
sa dove e come andare. Tale disorientamento può diventare un sistema di vita,
fino ad arrivare a non sapere più il vero perché delle cose, lasciandosi così
trascinare dagli impulsi e dalle situazioni. Giovanni con queste poche parole,
ci consegna un messaggio fondamentale: il non riconoscere Gesù fatto uomo fra
noi, come senso ultimo della realtà, che dà valore ad ogni cosa è a tutti gli
effetti un essere nelle tenebre, senza alcun punto di riferimento.
In questo versetto, abbiamo due poli antitetici: luce-vita e tenebra-morte.
L’opera di Dio in Gesù darà all’uomo la possibilità di uscire dalla tenebra in
cui si trova e di passare alla zona della luce-vita. La luce è l’ambito
dell’amore di Dio; e chi vi entra riceve il dono di questo amore (1,16).
Malgrado i suoi sforzi, la tenebra non è riuscita a
estinguere la luce, che, nel Vangelo di Giovanni si identifica con Gesù: “Io
sono la luce del mondo” (Gv 8,12a); è lui l’alternativa alla tenebra: “chi
segue me non cammina nelle tenebre” (Gv 8,12b).
vv. 6-8: Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era
Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché
tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva render
testimonianza alla luce.
 
In questi
versetti viene introdotta la persona del Battista e dice: ci fu” (letteralmente). Questo non è l’én
usato per la creazione nei vv. 3-4: Giovanni Battista è una creatura. Questa
nota sul Battista ci fa scendere dal mondo soprannaturale e divino all’universo
umano (“ci fu un uomo”).
Presentare la figura storica di Giovanni subito prima
dell’attività pubblica di Gesù è usuale nella predicazione primitiva. Qui si
parla di Lui come uno che ha ricevuto una missione profetica. L’evangelista fa
di questo personaggio il primo grande “testimone” di Gesù-luce.
La
differenza di tonalità colpisce il lettore ed è possibile che questo passo su
Giovanni (come pure il versetto 15) sia stato introdotto più tardi per
dissuadere i discepoli di Giovanni dal mettere questo grande profeta sullo
stesso piano di Gesù. Tra i due c’è una differenza radicale che separa “colui
che era fin dal principio, rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da
parte di Dio per essere testimone. Il Battista è un testimone della luce, ma non
la luce stessa. Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle
autorità giudaiche (1,19-34), davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti
ai propri discepoli (1, 35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel
vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto
ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41).
L’evangelista stima così tanto il
Battista che parla di lui come l’intermediario autorizzato fra il Verbo e
l’umanità.
Nell’antichità la testimonianza era
un gesto con il quale ci si poneva come difensori e garanti di una causa,
totalmente disponibile a subire le conseguenze di una presa di posizione.
Giovanni
Battista deve testimoniare che colui che Israele attendeva era presente.
Giovanni sa che Costui gli è superiore in dignità (1, 27).
Giovanni
diventa «figura» di tutti i testimoni che nel corso della storia hanno ricevuto
la missione di testimoniare nel mondo la presenza della luce divina: la sua
figura e il suo messaggio assumono una portata universale.
v. 9: Veniva
nel mondo la luce vera
.
Con questa
versetto inizia un nuovo quadro della storia di Dio che si comunica, attraverso
la rivelazione del Verbo, nella concretezza dell’incontro fra il Verbo-Luce e
gli uomini. Abbiamo qui l’aggettivo “vero” che tornerà spesso nel vangelo: vero
pane (6,32), vera bevanda (6,55), vera vita (15,1). Nell’uso ebraico, “vero”
caratterizza in primo luogo l’ordine divino (cfr. 7,28; 17,3), che viene
contraddistinto dall’illusione e dalla fallacia dell’ordine dell’uomo peccatore
(cfr. Rm 3,4). Così Giovanni afferma che soltanto nella rivelazione avvenuta in
Gesù, attraverso la sua Parola e il suo operare, viene data a tutti gli uomini
l’autentica comprensione della loro esistenza. Il Verbo è qui qualificato come
«luce vera». La posizione del Verbo è precisata non solo nei confronti di
Giovanni, che era soltanto il testimone della luce, ma anche nei confronti di
tutte le false luci che sarebbero apparse nel mondo: esse non sono altro che
ingannevoli idoli, mentre solo il Dio vivente è veritiero.
La Parola
di Dio «illumina ogni uomo»: con questa espressione Giovanni si riferisce a
ciascuno uomo nella sua singolarità: il Verbo viene incontro a ciascun uomo
nello scorrere del tempo.
v. 10: Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non
lo riconobbe.
Il Verbo
era nel mondo: una presenza che è conseguente a quanto detto nel v. 9 (il mondo
fu creato mediante il Verbo).
«Mondo»
«kosmos»: è un termine molto importante; per tre volte viene ripetuto nei
versetti 10-11, ma con sfumature diverse. Inizialmente Giovanni parla del mondo
nel senso di «universo» creato da Dio, come era nel pensiero dei greci. Nella
citazione successiva il termine allude non solo all’universo fisico, ma include
il «mondo umano». In questi due riferimenti il mondo è usato in un senso
decisamente positivo. Nel terzo riferimento si parla del mondo umano con un
contenuto negativo, in quanto si allude al mondo sottomesso al potere delle
tenebre e ostile alla missione e all’opera salvifica di Cristo. In pratica ogni
singolo uomo è posto nella condizione di accettare o meno la luce.
L’accoglienza della luce, mediante la fede, porta la vita divina e la salvezza.
Il «mondo» diventa «peccatore» soltanto dal momento in cui rifiuta la
rivelazione di Cristo e non riconosce la gratuità del dono di Dio. Non viene data
nessuna giustificazione del rifiuto di questa luce: c’è solo la costatazione
del suo rigetto. L’affermazione del fallimento dell’incontro fra il Verbo e gli
uomini non contraddice ciò che è stato dichiarato precedentemente, cioè che le
tenebre non hanno arrestato la luce: all’evangelista interessa sottolineare il
paradosso del rifiuto che la creatura oppone al suo Creatore.
v. 11: Venne fra la sua gente, ma i suoi non
l’hanno accolto
.
La TOB
traduce: È venuto nella sua proprietà, in casa propria… Verosimilmente Israele
rappresenta storicamente l’umanità che tutta intera appartiene al Creatore. Il
versetto vuole precisare ulteriormente la natura del rifiuto opposto al Verbo.
Il versetto richiama la
presenza del Verbo nel mondo che egli ha creato. Il Verbo è venuto nella “sua
proprietà”. Il termine sottolinea una relazione speciale fra due individui o
fra una persona e un gruppo. Possiamo richiamare alla mente le allusioni di
Gesù circa la relazione che unisce il pastore alle sue pecore, per indicare il
rapporto generato tra Lui stesso e i suoi discepoli. Dopo aver accennato al
“mondo” in generale, Giovanni sembra che qui voglia ricordare il comportamento
speciale di Dio verso il suo popolo eletto, particolarmente infedele.
v. 12: A quanti però l`hanno accolto, ha dato potere di
diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome
Diventare
figli di Dio implica una capacità che viene da Dio. È riferito agli uomini che
hanno riconosciuto nel Verbo il principio della loro esistenza e il senso della
loro storia, lasciandosi illuminare da lui.
«A quelli
che credono nel suo nome»: la formula è stata applicata frequentemente a Gesù
Cristo nel Nuovo Testamento; è un’espressione tipica dell’Antico Testamento che
si riferisce a Dio.
Tutti i
termini in questo versetto hanno rilevanza. “Ha dato”: si tratta di un dono del
Verbo all’uomo. “Potere”: il potere che dona a coloro che credono evidentemente
non può trattarsi di una facoltà autonoma, come se il credente divenisse capace
di procurarsi da sé lo stato di figlio di Dio. Possiamo sottolineare la dignità
che comporta il divenire figli di Dio.
Nell’Antico
Testamento l’espressione “figli di Dio” è usata normalmente al singolare. Da
principio viene applicata esclusivamente al re oppure a Israele, in quanto
popolo eletto, per indicare il legame particolare di protezione e di
benevolenza che unisce a Dio chi è designato come suo «figlio». In questo passo
i figli di Dio sono tutti gli uomini che credono in Dio, Israeliti o no.
In questa frase di Giovanni
“diventare figli di Dio” è contenuto un principio che dominerà tutto il
Vangelo: Dio non si sostituisce all’uomo, ma lo abilita a sviluppare la propria
attività. Lo abilita facendo si che nasca di nuovo (1,3; 3,3) per la
comunicazione del suo Spirito (cfr Gv 3,5ss), dandogli così una qualità di vita
che potenzia il suo essere e gli permette di svilupparlo fino a realizzare in
sé il progetto creatore.
v. 13: i quali non da sangue, né da
volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
L’uomo non
diviene figlio di Dio con la procreazione carnale, come ci ricordano le parole
del Battista: «Dio può suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo» (Gv
8,37-39). E non avviene neppure in forza di un «volere della carne», cioè in
forza del desiderio che ha la creatura mortale di sopravvivere alla morte attraverso
la propria discendenza. Possiamo pensare che c’è coincidenza tra l’azione
dell’uomo che «accoglie» il Verbo e quella di Dio che «genera». Queste due
azioni formano una cosa sola, nella diversità dei rispettivi ruoli. È
importante tenere presente il passo precedente dove si diceva che il Verbo
illumina ogni uomo. Ora infatti sappiamo che questa illuminazione, nella misura
in cui viene accolta, produce la filiazione divina. Ora, la figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Attraverso
le espressioni seguenti il ritmo dell’inno si costruisce in un crescendo. Con
la triplice contrapposizione si vuole esaltare la grandiosità del fatto di
nascere da Dio.
v. 14: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di
grazia e di verità.
La parola “Carne” (in greco sàrx)
definisce l’uomo nella sua condizione di debolezza e di destino mortale. È
intenzionalmente evidenziato il contrasto tra Lògos, nella sua condizione divina e la sàrx, nella sua condizione umana.
Colui che esisteva da tutta
l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana. Questo è il tremendo
mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica
natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato
(Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità.
Questa è una delle affermazioni più incisive di tutto il vangelo.
“Si fece” non divenne, perché non avvenne una trasformazione,
ma, rimanendo il Lògos che era,
cominciò a vivere nella sua nuova condizione debole e temporale. Il progetto
divino si è realizzato in una esistenza umana; la pienezza della vita splende
in un uomo, è visibile, accessibile, palpabile (cfr 1 Gv 1,1-3). Per la prima
volta si manifesta quale sia la meta della creazione di Dio: portare l’uomo
alla condizione divina.
Per esprimere questo mistero (“e
venne ad abitare”), Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della
tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”.
Il Lògos si accampò, alzò la sua tenda. Il vocabolo evoca la tenda (skenè)
del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a
loro”. Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2, 18-22)
è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua
esistenza storica che condivide con noi.
La tenda richiama anche il tema
della Sapienza che ebbe l’ordine: “Fissa la tenda in Giacobbe” (Sir 24,8). La
“carne” del Lògos è indicata come il
nuovo tabernacolo, quello della Nuova Alleanza. In Ap 21,35 anche la situazione
finale è descritta con espressioni simili: “Dio abiterà (si accamperà) nella
nuova Gerusalemme”. “Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito
del Padre…”. Nell’AT si chiamava “gloria di JHWH
lo splendore della presenza divina. Appariva in particolare sul Santuario o
Tenda; durante la sua inaugurazione, essa si riempì della gloria di Dio (cfr Es
40,34-38; 1Re 8,10ss).
“Pieno di grazia e di verità”. La frase è una traduzione
diretta di Es 34,6, dove Dio proclama come suoi tali attributi, che servono da
base all’Alleanza.
A partire dal versetto 14 la parola
“Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente raggiunto il
punto culminante della sua introduzione parlando della Parola divenuta carne,
non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una testimonianza non alla
Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
v. 15: Giovanni gli rende testimonianza e grida: “Ecco
l`uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché
era prima di me”.
Questo versetto riprende la
testimonianza di Giovanni Battista, la cui missione nei confronti della luce è
stata descritta nella prima parte del prologo. Adesso la sua testimonianza
viene proclamata.
Inoltre, si ribadisce il primato di
Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui
nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso
l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità”. La
missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in
grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina.
v. 16: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia
su grazia.
Tutti noi partecipiamo alla pienezza
di grazia, propria dell’Unigenito di Dio. “Noi tutti”: non si vuole
escludere nessuno. Questa è un’affermazione giubilante di tutti quelli che
hanno creduto in Cristo e perciò hanno la capacità di crescere nella loro
realtà di figli di Dio.
“Grazia su grazia”. (Charis antì charitos): tradotto
anche: “Amore in luogo di amore”; questa idea di sostituzione, come è stata
sostenuta dai Padri greci, significa implicitamente lo hesed di una nuova alleanza in luogo dello hesed del Sinai.
Il v. 17 sembra convalidarlo. Indica
un’esperienza vissuta e cioè la capacità di ricevere dalla sovrabbondanza di
Dio benevolenza-amore. Si vuole sottolineare non tanto un succedersi nel tempo
cioè “grazia dopo grazia” quanto piuttosto un aumento in intensità: si
tratterebbe di un accumulo di grazie, che rivela la continuità dell’azione di
Dio nella storia.
v. 17: Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e
la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo
.
In questo versetto, vengono messe a confronto l’azione di Mosè e quella di Gesù
in ordine alla salvezza. Anche se l’evangelista non si oppone alla legge,
tuttavia sottolinea un certo contrasto. La legge da una parte e la grazia e la
verità dall’altra sono doni e, poiché il Lògos
è da sempre presente nel mondo, tutto ci è venuto da Lui.
La
“Legge”, come parte integrante dell’alleanza, è tutto il complesso di
istruzioni che Dio ha consegnato al suo popolo nell’Antico Testamento. La Legge
si capisce come una benedizione di Dio: una guida per la vita e l’indicazione
di una via. La grazia e la verità vengono abbinate come dono proprio
dell’unigenito del Padre, Gesù Cristo stesso, fondatore della nuova alleanza,
rivelazione del Padre.
Mosè e
Gesù Cristo sono posti in parallelo: al dono della legge corrisponde il dono
della verità in Gesù Cristo. Questa verità supera la legge, che è soltanto una
sua manifestazione incompleta. Per Giovanni la Legge è già un dono di Dio, una
grazia che si espande al mondo intero, tuttavia egli sottolinea la profondità
della verità rivelata da Cristo: “in” e “mediante” Gesù Cristo, Figlio unico,
Dio si rivela come Padre.
v. 18: Dio nessuno l`ha mai visto: proprio il Figlio
unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.
In tutte le esperienze religiose
anche dell’AT, troviamo il desiderio di vedere Dio faccia a faccia, ma, salvo
eccezioni, quest’aspirazione deve attendere il cielo per potersi realizzare.
Giovanni evidenzia che Cristo permette di superare l’impossibilità di vedere
Dio.
Il
mediatore di questo accesso alla gloria è Gesù Cristo, il Figlio Unigenito. “Unigenito”
non soltanto per sottolineare che Gesù è lo stesso Figlio unico di Dio, ma
anche che è lo stesso Verbo incarnato (1,1). Giovanni aggiunge che l’Unigenito
è lui stesso «Dio»: Dio solo può parlare di Dio, in quanto “nel seno del
Padre”.
L’espressione sottolinea non solo la tenerezza e l’intimità
dell’amore tra il Padre e il Figlio, ma anche la finalità del rapporto: «il
Figlio unico è rivolto verso il cuore del Padre». Possiamo notare che, come nel
v. 14, il termine Dio viene sostituito da quello di Padre.
Soltanto
il Figlio unigenito, che condivide senza limiti la vita del Padre, può condurre
gli uomini alla conoscenza e alla vita. Con tutto ciò che è, che fa e che dice,
Gesù sarà il rivelatore e l’espressione di Dio e si rivolgerà ai discepoli
dicendo: Il Padre mio e il Padre vostro, il Dio mio e il Dio vostro (20,17).
Ci fermiamo in
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
La Parola illumina la
vita e la interpella
Le mie discussioni tengono
presente sempre ciò che il Signore mi fa conoscere attraverso il Vangelo e la
Sacra Scrittura?
Riconosco
in Gesù la piena manifestazione dell’amore del Padre? Lo ringrazio per questo?
Dio ha
piantato la sua tenda in mezzo a noi. Lui vive tra le nostre case. Anche nel mio
cuore?
Esco dai miei “nascondigli” per
lasciarmi illuminare dalla Luce del Natale per poter rinascere da Dio e,
diventare figlio nel Figlio, vivendo ogni giorno il Natale?
Rispondi a Dio con le
sue stesse parole
(Pregare)
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi. (Sal 147).
L’incontro con
l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Nel
silenzio del cuore incontra il Signore. Ripeti spesso e vivi questa Parola: il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.

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