Vai al contenuto

LECTIO: XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno A

 Lectio divina su Mt 25,14-30

 
Invocare
O Padre, che
affidi alle mani dell’uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fa’ che
la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici
sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo giorno, nella speranza di sentirci
chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno.
Per Cristo
nostro Signore. Amen.
 
In
ascolto della Parola
(Leggere)
14 Avverrà infatti come a un uomo
che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità
di ciascuno; poi partì. Subito 16 colui che aveva ricevuto cinque
talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche
quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18 Colui
invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e
vi nascose il denaro del suo padrone. 19 Dopo molto tempo il padrone
di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20 Si
presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque,
dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati
altri cinque». 21 «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo
padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte
alla gioia del tuo padrone». 22 Si presentò poi colui che aveva
ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne
ho guadagnati altri due». 23 «Bene, servo buono e fedele – gli disse
il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi
parte alla gioia del tuo padrone». 24 Si presentò infine anche colui
che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro,
che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25
Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò
che è tuo». 26 Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu
sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27
avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei
ritirato il mio con l’interesse. 28 Toglietegli dunque il talento, e
datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha, verrà dato
e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30
E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di
denti».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi
metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
La “Parabola dei
Talenti” (Mt 25,14-30) fa parte del 5º Sermone della Nuova Legge (Mt 24,1 a
25,46) e si colloca tra la parabola delle Dieci vergini (Mt 25,1-13) e la
parabola del Giudizio finale (Mt 25,31-46). Queste tre parabole chiariscono il
concetto relativo al tempo dell’avvento del Regno. La parabola delle Dieci
vergini insiste sulla vigilanza: il Regno di Dio può giungere da un momento
all’altro. La parabola dei talenti orienta sulla crescita del Regno: il Regno cresce
quando usiamo i doni ricevuti per servire. La parabola del Giudizio finale
insegna come prendere possesso del Regno: il Regno è accolto, quando accogliamo
i piccoli. La parabola delle vergini si conclude con un invito a vegliare. Il
versetto seguente (inizio del vangelo di oggi), riprende: “Come infatti”. Ci
deve essere un nesso tra le due cose, tra l’invito a vegliare e la parabola
così introdotta. Che cosa significa “vegliare”? La parabola precedente
conteneva già una risposta: sapersi equipaggiare per un tempo lungo. Ma da essa
appariva già chiaro che “vegliare” non è solo stare svegli durante la notte:
tutte quelle vergini si sono addormentate e questo non è un fatto che venga
censurato. “Come infatti” allora vegliare? Matteo continua a porsi lo stesso
problema anche nella parabola dei talenti, e la sua risposta è questa volta che
la vigilanza deve ispirare le nostre occupazioni quotidiane.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v.
14: Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio
La pericope
evangelica inizia con una partenza e una consegna. La storia della salvezza ha
spesso fatto riferimento a dei viaggi: il viaggio di Abramo (cfr. Gen
11,23-25,10), il viaggio di Mosè (cfr. Es 2-20) con il suo popolo, il viaggio
di Gesù a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51-18,14). Tutto ciò che siamo non ci deve
fare dimenticare che se abbiamo dei doni li abbiamo in virtù di quei viaggi che
nella Scrittura sono viaggi di salvezza. È il modo in cui prima di tutto Dio, e
poi il suo popolo, ci descrivono cosa è racchiuso in quei doni che lui ci ha
fatto. In tutto questo ci sta un senso di responsabilità dei cristiani. Il
viaggio, deve servire per un maggiore impegno a servire con fedeltà il Signore.
chiamò
i suoi servi
Il viaggio del
padrone è legato alla chiamata. Sembra rivivere il riposo di Dio al termine
della creazione dell’uomo. Egli riposa perché lo ha creato a sua immagine e
somiglianza; l’uomo è l’unico a cui può affidare la terra in cui l’ha posto.
L’uomo, quindi, è l’amministratore che gode della fiducia di Dio e Dio, ora,
può riposarsi.
È nel riposo di
Dio che nasce la chiamata e il servizio. In esso esprimiamo in modo sommo ciò
che Cristo ha compiuto nel suo viaggio verso Gerusalemme. In fondo, rispetto al
viaggio che Gesù ha compiuto, la nostra fedeltà per la nostra condizione di
servi è ben poca cosa. Ma è una realtà alla quale il Signore affida un valore
immenso se vissuto nella consapevolezza che tutto dovrà essere a lui reso.
e
consegnò loro i suoi beni.
Il beneficiario
dei beni vive la condizione di servo. Il servizio è la realtà nella quale
esprimiamo in modo sommo ciò che Cristo ha compiuto nel suo viaggio verso
Gerusalemme.
L’inizio della
vita è la consegna di un patrimonio da parte di Dio a noi. Quel patrimonio non
ce lo siamo del tutto meritato ed in fondo non appartiene del tutto a noi,
perché della vita non possiamo fare ciò che vogliamo; essa appartiene al
Signore ed è un dono che il Signore ci fa, un valore immenso se vissuto nella
consapevolezza che tutto dovrà essere a lui reso.
Il patrimonio
qui è descritto in talenti. Un talento corrispondeva a seimila denari ed il
denaro che era la retribuzione di un giorno di lavoro. Un talento erano seimila
giornate lavorative.
Gesù usa questa
unità di misura per illustrare qualcosa circa la ricchezza che Dio riversa
negli uomini.
v.
15: A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno
In questo
versetto si nota con chiarezza che la distribuzione non è uguale per tutti.
Tuttavia nel Vangelo il Signore non si sofferma su quanti talenti posseggo.
Quei talenti
rappresentano una varietà di doni e l’evangelista ne sottolinea le qualità
umane legate alla persona: le specifiche capacità che poi saranno sviluppate
nel tempo e che si trasformeranno anche in abilità particolari.
Il “talento” non
è una moneta, ma è una misura di peso (argento o oro), da un peso che va dai 30
ai 37 Kg (non abbiamo un valore preciso
); più che una moneta corrente era una
specie di lingotto
rotondo,
per grosse operazioni finanziarie
.
Nel
v. 18 il denaro è definito in greco
arghyrion: come nel
francese
argent,
l’argento
ha finito per significare semplicemente “denaro”, Perciò 5 talenti
corrispondono a circa 190 chili d’argento e ognuno può calcolare in valuta
nostra l’ammontare delle somme paraboliche. In sostanza si vuol dire che i beni
affidati ai servi hanno un enorme valore.
Cinque talenti in pratica, è una somma ingente che serve a
dare un’idea della preziosità dei beni spirituali affidati da Cristo ai suoi
«amministratori».
secondo
le capacità di ciascuno; poi partì.
Il termine usato
per dire “capacità” è “dynamin” che significa: “a ciascuno secondo quanto può
fare”. È il talento che mette in condizione le persone di essere valorizzate.
Il carisma non si sostituisce alla persona, ma si incarna. In fondo, è il dono
di essere figlio che dà al figlio di essere figlio, se così si può dire,
applicandolo a Gesù. Il termine dynamis è il termine usato a proposito
dell’azione dello Spirito nella Chiesa, la sua potenza. Il dono non si
sostituisce alla persona. Proverei a pensare a una Chiesa nella quale la
presenza dei cristiani è presenza preziosa perché è la presenza di coloro che
vengono resi, per il dono dello Spirito Santo, capaci. La capacità è legata al
dono dello Spirito. Ecco allora l’importanza del discernimento dei doni dello
Spirito. La dynamin, allora, è quella capacità non intesa come capienza, ma
come quella condizione che, in virtù del carisma, mette in atto ciò che è,
realizza ciò che è. Allora non ci stupiremmo più del poter mettere in atto la
parola da parte dei poveri, se è vero questo.
vv.
16-17: Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne
guadagnò altri cinque.
La parola
«subito» è molto importante ed ha un valore temporale (indica immediatezza,
puntualità), e un valore modale (manifesta l’energia, la decisione, la
scioltezza con le quali il servo agisce): ha risposto con prontezza alle attese
del padrone. Inoltre, la parola «subito» indica che questo servo agisce coi
talenti come avrebbe agito con i propri averi. Non agisce come un servo che si
accontenta di eseguire ordini, ma come un servo intelligente che pensa a cosa
fare in ogni circostanza per far fruttare i beni del padrone, sapendo che la
propria situazione migliorerà se migliora quella del padrone. Più che come un
servo, si comporta come un socio, come uno stretto collaboratore del padrone.
Questo servo è quasi un alter ego del padrone, però non ne approfitta per
arricchirsi alle spalle del padrone. L’iniziativa del servo rende fruttuoso il
capitale che gli è stato consegnato e lo raddoppia. Il racconto non specifica
come abbia raggiunto questo obiettivo, perché si tratta di un particolare
secondario alla dinamica del brano. Basta sapere che ha messo a frutto
intelligenza e buona volontà, dinamismo e intraprendenza, partecipando in modo
personale al raggiungimento del nuovo capitale.
Così
anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.
Allo stesso modo
anche il secondo servo: ha ricevuto di meno, ma anche lui si mobilita
immediatamente e riesce a raddoppiare il capitale iniziale, raggiungendo lo
stesso obiettivo del primo. Il testo non indica nemmeno per questo servo come
ha fatto fruttare i talenti e ha conseguito il guadagno.
v.
18: Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel
terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Ben diversa è la
posizione presa dal terzo servo che costituisce la variante del racconto: con
lui il meccanismo si inceppa e non riesce a raddoppiare il capitale
semplicemente perché non ci ha nemmeno provato. Ha seguito una strada che può
sembrare apparentemente logica: quella di conservare il denaro.
In antico nascondere il denaro sotto terra era il
modo più indicato per metterlo al sicuro contro i ladri, secondo un detto
rabbinico:
«Il
denaro non può essere custodito con sicurezza se non sotto terra»
. Chi sotterrava il denaro era considerato esente
da responsabilità, mentre chi avvolgeva nella stoffa il denaro affidatogli era
ritenuto responsabile della sua eventuale perdita (vedi Lc 19,20).
Il confronto con
gli altri due servi blocca ogni tentativo di giustificazione del terzo.
Rappresenta l’uomo ingessato, statico, in opposizione al dinamismo dei primi
due. Sono in contrasto due atteggiamenti: il fare e il non fare.
Una lettura
spirituale può farci considerare che il talento di quest’ultimo servo, per lui
non era altro un peso che il padrone gli metteva sulle spalle, una
responsabilità pesante da portare e che non avrebbe prodotto per lui nessun
vantaggio, perché quel talento era del padrone e se lo moltiplicava, lo
moltiplicava per lui. Che interesse ha a fare questo? Nessuno. Allora questo
servo diventa fannullone e non si impegna perché non gli interessa fare piacere
al padrone; è convinto che il Signore, il padrone, quel talento non glielo ha
dato per amore, glielo ha dato per interesse. E si può vedere la vita anche
così. Si può vedere la vita come un atto di fiducia nei nostri confronti, ma si
può vedere anche solo come un peso che ci è stato messo sulle spalle e nel
quale non c’è niente da guadagnare; semplicemente siamo costretti a sopportare
una sofferenza che non ci piace e che non ha risultati.
v.
19: Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti
con loro.
La frase porta avanti il motivo
del «ritardo» che si trova nelle precedenti parabole (vedi Mt 24,48; 25,5).
Questo, più il riferimento al «padrone»
(kyrios)
e al regolamento dei conti, fa
della parabola un’anticipazione del giudizio finale.
Nel quadro dell’escatologia generale questo lungo «tempo» va
dall’ascensione al ritorno finale del Cristo (cfr. At 1,11); nel quadro invece
dell’escatologia individuale, che è quello prevalente nella parabola, esso
corrisponde al corso della vita di ciascun uomo, che per l’individuo
rappresenta senz’altro un tempo «lungo».
Il lungo tempo è
lo spazio in cui i servi possono mettere a frutto le loro capacità ed è anche
il momento di verifica di ciò che pensano, della loro fedeltà. La lontananza e
il trascorrere del tempo avrebbero potuto favorire l’oblio nei confronti del
padrone, il dubbio sul suo ritorno, il cedere alla tentazione di una
appropriazione indebita e di un uso scriteriato del denaro, il cadere
nell’illusione di esserne diventati padroni assoluti. Tutto questo ha un
antecedente nella parabola del maggiordomo fidato e di quello malvagio,
presente in Mt 24,45-51. Nella parabola dei talenti il passare del tempo ha
registrato due atteggiamenti: una dipendenza laboriosa e soprattutto fiduciosa,
e un possesso neghittoso e pesante. Mentre prima della partenza tutto si era
svolto in silenzio, a questo punto tutto si manifesta dialogando.
vv.
20-23: Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri
cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho
guadagnati altri cinque». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo
padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte
alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi colui che aveva ricevuto due
talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho
guadagnati altri due». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone
-, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia
del tuo padrone».
Viene intavolato
un dialogo che mette in luce quanto è stato fatto e le motivazioni che hanno
spinto i servi ad agire. Entrambi dicono la stessa cosa, anche se i risultati
sono differenti in base ai talenti. I servi si rivolgono al padrone, lo
chiamano «Signore» e gli dicono che il tempo passato per loro è stato un tempo
fruttuoso. Usano i verbi «mi hai consegnato» e «ho guadagnato»: il primo verbo
esprime la fiducia del padrone e il secondo verbo esprime la loro risposta
fedele e laboriosa. Il rischio e la fiducia del padrone hanno avuto esito
positivo. Per entrambi risuona lo stesso compiacimento del padrone che si
trasforma in premio (materiale e spirituale): «sei stato fedele nel poco, ti
darò potere su molto»; «nel gaudio del tuo Signore».
La differenza
tra i due e i cinque talenti non incide minimamente sul premio. Entrambi hanno
risposto alla fiducia del padrone col massimo delle loro capacità e perciò sono
trattati allo stesso modo, è premiato egualmente. Ciò esclude ogni forma di
ingiustizia nella distribuzione iniziale e conferma che l’uguaglianza non si
stabilisce in base a un puro calcolo matematico, ma in base al rispetto della
forza delle singole persone, che sono però ritenute tutte capaci di condividere
la gioia del padrone.
Il padrone parla
di fedeltà «nel poco»: cinque e due talenti non sono poco, perché corrispondono
a quaranta e a cento anni di lavoro. Se questo viene definito «poco» dal
padrone, che poi si impegna a dare loro potere su «molto», vuol dire che la
nuova ricchezza deve essere davvero faraonica. Non è importante quantificarla,
perché il «molto» serve alla trama narrativa della parabola per creare un
vistoso contrasto tra ciò che è stato compiuto dai servi (il «poco») e la
ricompensa data dal padrone (il «molto»). La fedeltà è ripagata con la
condivisione della vita divina, un entrare nella perfetta filiazione.
Se uno vuole
trasformare la propria vita, deve partire non con un atteggiamento di paura
verso Dio, ma con un atteggiamento di fiducia, deve essere convinto che il
Signore lo ami, deve restituire amore per amore. È l’amore che ci porterà a
fare ciò che piace a Dio, che ci spingerà a trasformare la nostra vita secondo
una forma che sia corrispondente al progetto di Dio.

vv.
24-25: Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e
disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli
dove non hai sparso.
Il terzo servo
mette allo scoperto i suoi sentimenti e dice cose diverse rispetto ai primi
due, perché ha avuto un comportamento diverso.
Egli inizia
attaccando il suo padrone e fornendone un quadro molto scuro. Non dice come ha
saputo che il padrone è così, ma lo dà per certo. La consegna del talento è
giudicata negativamente: non è ritenuta un atto di fiducia da parte del
padrone, ma una sua voglia di arricchirsi, utilizzando la fatica degli altri.
Il servo non riesce a percepire il dono che gli è stato fatto, l’opportunità
che gli è stata data di esprimere se stesso e le sue qualità, di dimostrare la
sua gratitudine e di rispondere efficacemente alla fiducia accordatagli. È
sintomatico che dopo l’appellativo «Signore» non compaia il verbo «mi hai
consegnato» col quale i primi due servi esprimevano la certezza di essere
stimati dal padrone. Il talento ricevuto non lo porta a pensare che il padrone
ha fiducia in lui, ma vede quel talento solo come un valore da restituire a un
padrone severo e di conseguenza pensa che il vantaggio del suo agire sarebbe
tutto e solo del padrone.
Ho
avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che
è tuo».
Il terzo servo
confida di aver agito per paura: paura della durezza e della severità del suo
padrone. È sempre la natura del rapporto con il Signore che determina il
comportamento quotidiano.
Questa paura non
è il timore positivo, il rispetto fiducioso del servo per il padrone, ma è un
legame servile, schiavistico. Il servo non intende correre rischi, non vuole
avere responsabilità e mette al sicuro il denaro sotto terra: gli investimenti
infatti sono sempre rischiosi; si crede giusto e sdebitato, quando, secondo i
dettami della giurisprudenza di allora, può restituire al padrone tutto il
denaro che ha sotterrato.
Questo servo si
presenta paralizzato (dalla paura): bloccato negli slanci del cuore e nelle
iniziative della mente, riduce al minimo i rapporti.
vv.
26-27: Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto
dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il
mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con
l’interesse.
A questa
“paralisi”, il padrone risponde duramente. Il padrone osserva la malvagità
legata alla pigrizia. Il terzo servo ha deluso le speranze che aveva riposte in
lui. Anche lui era cosciente del rischio, ma contava sulla diligenza fedele e
laboriosa del suo servo. La sua pigrizia è la ragione unica per cui il talento
che gli aveva affidato è rimasto improduttivo.
Con il severo
giudizio di malvagità dato al servo «pigro» Gesù vuol far comprendere che
cattivo non è solo chi fa il male, ma anche chi non fa il bene.
Il Signore ci ha
reso capaci della dynamis, della
potenza dello Spirito da mettere in atto perché possa fruttificare.
v.
29: Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha,
verrà tolto anche quello che ha.
Il versetto
riprende quanto viene espresso in Mt 13,12 ed è contraddistinto dall’uso del passivo
divino o teologico. Questa massima probabilmente era a se stante, perché
ricorre in altri passi del vangelo (cfr. Mt 13,12), ma è messa qui per
sottolineare la logica responsabilizzante con la quale opera il padrone e per
sottolineare la prospettiva religiosa del narratore.
Con questo
versetto il racconto mette in scena il protagonista, cioè Dio, ma senza
nominarlo esplicitamente: è con Lui che devono confrontarsi tutti i servi. A
chi ha ricevuto i suoi doni e li ha accolti, perché attraverso essi crede nel
donatore, sarà dato: per queste persone il dono si moltiplica. A chi ha
ricevuto i suoi doni, ma non li ha accolti, perché non crede nella fiducia del
donatore, sarà tolto anche quello che ha: non ha fatto proprio il dono, ma lo
ha messo sotto terra; non ha fatto proprie le sue capacità: quindi nei
confronti di questi doni non resta da fare altro che toglierglieli, confermando
così la scelta e il comportamento di questo servo.
v.
30: E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore
di denti».
Alla fine giunge
la punizione morale, quella più importante: la privazione della comunione con
il padrone come per le vergini stolte (cfr. Mt 25,13). Alla gioia condivisa dai
primi dei servi con il padrone fa da contrappunto l’isolamento del terzo servo,
gettato fuori, lontano dalla intimità. Con una espressione cara a Matteo si usa
il linguaggio della sofferenza per indicare la condanna eterna: «nelle tenebre:
là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,12). La perdizione del terzo servo è
descritta coi termini popolari del tempo (tenebre, pianto e stridore di denti):
non è il caso di trarre da questo testo informazioni su come è fatto l’inferno,
ma piuttosto di trarre lezioni di vita per il presente. È drammatico che questo
servo è punito non tanto per quello che ha fatto, ma per quello che non ha
fatto, pensando in modo sbagliato del suo padrone. Si ripete quanto era stato
detto nella parabola delle dieci vergini, che possono entrare alle nozze solo
in un determinato tempo. Chi è trovato senza olio perché non pensava che lo
sposo potesse tardare, o chi arriva tardi, ne resta escluso.
Quando ci si
chiude in se stessi per paura di perdere il poco che si ha si perde perfino
quel poco che si ha, perché l’amore muore, la giustizia si indebolisce, la
condivisione sparisce. Invece la persona che non pensa a sé e si dona agli
altri, cresce e riceve sorprendentemente tutto ciò che ha dato e molto di più.
“Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria
vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,39).
 
Ci
fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il
Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la
interpella

Riconosco di
avere da Dio un talento? Come lo impiego?
Riconosco che
anche l’altro ha un talento? Lo aiuto a conoscere e valorizzare?
Quei cinque o
due o un talento che tu hai ricevuto, hai saputo amare il padrone e quindi
usare i talenti per lui rispondendo alla sua fiducia e alla sua speranza?
Rimetto in Dio
fiducia o rimango indifferente, sotto terra, nel peccato?
Cosa dice alla
mia vita questa frase: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza;
ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha?”
 
Rispondi a Dio con le sue
stesse parole
(Pregare)
Beato chi teme
il Signore
e cammina nelle
sue vie.
Della fatica
delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e
avrai ogni bene.    
 
La tua sposa
come vite feconda
nell’intimità
della tua casa;
i tuoi figli
come virgulti d’ulivo
intorno alla tua
mensa. 
 
Ecco com’è
benedetto
l’uomo che teme
il Signore.
Ti benedica il
Signore da Sion.
Possa tu vedere
il bene di Gerusalemme
tutti i giorni
della tua vita! (Sal 127).
 
L’incontro con l’infinito di
Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Ciò che Dio ti
ha donato, non devi moltiplicarlo ma donarlo, devi farlo circolare in altri. La
vita la si ha nella misura in cui la si dona.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *