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LECTIO: GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO Anno A

 Lectio divina su Mt 25,31-46

 
Invocare
O Padre, che hai
posto il tuo Figlio come unico re e pastore di tutti gli uomini, per costruire
nelle tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore, alimenta in noi la
certezza di fede, che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico, la morte,
egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione, perché tu sia tutto in tutti.
Egli è Dio, e
vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei
secoli. Amen.
 
In
ascolto della Parola
(Leggere)
31 Quando il Figlio dell’uomo
verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua
gloria. 32 Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli
separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33
e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del
Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione
del mondo, 35 perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho
avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36
nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete
venuti a trovarmi». 37 Allora i giusti gli risponderanno: «Signore,
quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti
abbiamo dato da bere? 38 Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti
abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 Quando mai ti
abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40 E
il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». 41
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42
perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi
avete dato da bere, 43 ero straniero e non mi avete accolto, nudo e
non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». 44
Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o
assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». 45
Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete
fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». 46
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita
eterna».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi
metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Il nostro testo è
la conclusione di un lungo discorso escatologico (Mt 24,1-25,46) pronunciato da
Gesù sul monte degli Ulivi ai suoi discepoli in disparte (Mt 24,3). Il discorso
parte dall’annunzio della distruzione di Gerusalemme per parlare della fine del
mondo. I due eventi si confondono come se fossero uno solo.
Questa parte del
discorso finisce con la venuta del Figlio dell’uomo con grande potenza e
gloria. Egli manderà i suoi angeli a radunare tutti i suoi eletti (Mt
24,30-31). A questo punto il flusso cronologico dei fatti annunciati viene
interrotto con l’inserzione di alcune parabole sulla necessità di vegliare per
non essere sorpresi alla venuta del Figlio dell’uomo (Mt 24,24-25,30). Il
discorso escatologico trova il suo culmine letterario e teologico nel nostro
testo che, riallacciandosi a Mt 24,30-31, torna a parlare della venuta del
Figlio dell’uomo accompagnato dagli angeli. Il raduno degli eletti prende qui
la forma di un giudizio finale.
Questo discorso
escatologico chiude il ministero di Gesù, cioè l’attività pubblica in cui Gesù
ha predicato e operato segni, miracoli. Dopo c’è il racconto della passione.
Fondamentalmente, il significato di questo discorso è un’esortazione a
sintonizzare la nostra vita sul futuro che ci viene svelato davanti; il Signore
ci dice quale sia il futuro della storia e ce lo dice perché impariamo a vivere
il presente orientandolo verso quel futuro, perché ci possiamo preparare
vegliando, rimanendo svegli, senza lasciarci addormentare o anestetizzare da
tutte le diverse esperienze della vita quotidiana. Quindi, al centro di quel
discorso c’è l’invito a vegliare.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v.
31: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con
lui, siederà sul trono della sua gloria.
Il brano
comincia con la parola “Quando”. Questa era la domanda dei discepoli: “Quando è
che verrai nella tua gloria?” (cfr. Mt 24,3). Troveremo questo e simili avverbi
nei capitoli seguenti.
Sorge una domanda
sul quando finale, quando avviene? Quale ora? L’ora di Gesù è spiegato molto
bene dall’evangelista Giovanni. Matteo ci dice che l’ora è in questo preciso
momento in cui lo riconosciamo: quando il Signore verrà nella sua gloria e
vedremo che l’evento glorioso sarà proprio sulla croce: lì manifesterà la
gloria di Dio, la gloria di un amore infinito, la gloria di chi sa portare il
male del mondo senza restituirlo, la gloria di chi vince il male col bene, lì
rivela la gloria e sarà riconosciuto come Dio.
Il versetto
riporta l’espressione semitica “Figlio dell’uomo”, che significa semplicemente
un essere umano (cfr. il parallelismo tra “uomo” e “figlio
dell’uomo” in Sal 8,5). La troviamo frequentemente nel libro di Ezechiele
dove Dio indirizza il profeta come “figlio dell’uomo” (Ez 2,1.3.6.8;
3,1.2.4.10.16) per risaltare la distanza tra Dio che è trascendente e il
profeta che è un semplice uomo. Anche in Daniele 7,13-14 l’espressione acquista
un significato particolare. Il profeta vede “apparire sulle nubi del cielo
uno simile ad un figlio di uomo” che riceve da Dio “potere, gloria e
regno”. Si tratta pur sempre di un essere umano, che però viene introdotto
nella sfera di Dio. Il testo è stato interpretato sia in senso personale che
collettivo, ma sempre in senso messianico. Quindi, sia che si tratti di una
sola persona sia che si tratti del Popolo di Dio nel suo insieme, il Figlio
dell’uomo è il Messia che inaugura il Regno di Dio, un regno eterno e
universale.
Nel NT Figlio
dell’uomo è Gesù Cristo, di cui viene richiamata la figura umana umile e
sofferente, perché il termine “Figlio dell’uomo” richiama questa debolezza
della condizione umana di Gesù. Ma quel Gesù che è passato in mezzo a noi
conoscendo la sofferenza, ora è presentato davanti a noi come giudice, lui è il
giudice della storia. Dunque, il giudizio ha una misura umana, è misurato su un
uomo, e su quell’uomo concreto che è Gesù. L’uomo autentico, l’uomo compiuto è
Lui, per questo l’umanità è misurata a partire da Lui. Gesù viene presentato
come un re. E qualche versetto dopo verrà proprio detto che è un Re che si
insedia su quel posto di potere che gli spetta. Il vangelo di Matteo viene
messo in bocca a Gesù particolarmente quando egli parla della sua passione (Mt
17,12.22;20,18.28), della sua resurrezione come evento escatologico (Mt
17,19;26,64) e del suo ritorno glorioso (Mt 24,30; 25,31).
vv.
32-33: Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.
Il versetto
contiene un verbo passivo. Esso vuole indicare che colui che raduna è Dio; la
fine della storia, intesa come una ricomposizione dell’umanità frammentata, è
dunque dovuta alla sua azione potente, perché la storia non è proiettata verso
il nulla o il caos, ma è nelle mani di Dio che raduna alla fine il suo gregge
disperso. In questa espressione riecheggiano passi significativi dell’AT come
quello di Gioele: “ Riunirò tutte le nazioni … e verrò a giudizio con loro” (Gl
4,2) oppure di Isaia: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue;
essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18).
Con la parola
“genti”, in genere, la tradizione biblica intende i pagani, i “goym”; questo è
confermato da Matteo, infatti è alle genti che deve essere annunziato il
vangelo prima che venga la fine: “questo vangelo del regno sarà annunciato in
tutta la terra abitata a testimonianza per tutte le genti” (Mt 24,14; 26,13).
Alla fine della
sua narrazione Matteo trasmette l’invito del Risorto ad “ammaestrare tutte le
genti” (Mt 28,19). Si può dire allora che la locuzione tutte le genti va
riferita anzitutto ai popoli pagani, che sono stati messi a confronto con il
messaggio di Gesù dall’annuncio degli apostoli, dei discepoli e dei credenti in
genere. Se questo è vero, Mt 25,31-46 vuole presentarci il giudizio di coloro
ai quali sono inviati gli apostoli. Stando al testo di Matteo, l’Israele
biblico sembra già essere stato giudicato: “perciò io vi dico: vi sarà tolto il
regno di Dio e sarà dato a un altro popolo che lo farà fruttificare” (Mt
21,43).
Anche i
cristiani saranno giudicati nell’ultimo giorno, ma non sembra siano compresi in
questo brano; infatti sempre all’interno del discorso escatologico, ma
immediatamente prima del giudizio delle genti, i credenti in Cristo saranno
misurati in base alla vigilanza, alla docilità nel compiere la volontà del
Padre celeste, alla messa a frutto dei doni di Dio (cfr. Mt 24,36-25,31).
Egli
separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e
porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Questo versetto
e il seguente sono un frammento di genere parabolico, che però non è
sufficiente a far ritenere tutto il brano una parabola. Al Figlio dell’uomo è
stata già riconosciuta la funzione regale, con il lessico del trono, della
gloria, del giudizio, al v. 34 gli si attribuirà esplicitamente il titolo di
Re; in questo versetto invece viene presentato come “pastore”.
I due titoli di
pastore e di re non sono in conflitto, descrivono invece la cura, la premura e
la responsabilità di colui che ha alla fine il ruolo di giudice della storia.
La separazione delle pecore (nome femminile) dai capri (nome maschile) non
vuole indicare una giustizia che distingue i maschi dalle femmine, si rifà
piuttosto all’uso dei pastori palestinesi che alla sera separano le due
componenti del gregge, perché i secondi sono più sensibili al freddo rispetto
alle pecore che meglio resistono al clima rigido. Stando al paragone la
separazione sembra guidata dall’attenzione e dalla cura e non
dall’atteggiamento condannatorio; se poi pensiamo che sullo sfondo del brano abbiamo
Ez 34, questo tratto di premura e responsabilità viene ulteriormente
accentuato.
v.
34: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra
Il Signore è il
Re. Il Re che si identifica con gli ultimi, Egli è il Re dell’universo e dirà: “Venite”,
la salvezza è venire presso di Lui, Lui è il Figlio, tutto è stato creato nel
Figlio perché tutti siamo figli e nessuno è predestinato alla perdizione.
Venite,
benedetti del Padre mio
Matteo ama molto
la locuzione Padre mio, la usa infatti 16 volte per esprimere la relazione
unica del Figlio col Padre; in questo testo fa comprendere che dalla sua
relazione unica col Figlio scaturisce la benedizione di Dio verso gli uomini,
questa sovrabbondanza di amore che si riversa sugli uomini che sono così
benedetti, cioè amati, gratificati di ogni benevolenza divina.
ricevete
in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo
È la
presentazione dell’entrata in possesso del bene immenso del regno, possesso che
non nasce da un diritto, ma da una gratuità che vive e cresce nella relazione
Padre-figli. Quindi il dono non scaturisce dai meriti, ma dalla gratuità della
paternità divina e dall’accoglienza da parte degli uomini del Figlio: è Lui che
conduce al “Padre” e quindi alla relazione filiale che dona benevolenza e beatitudine.
L’amore del
Padre non è estemporaneo, né emotivo, ma innestato nella sua identità
generativa e creatrice; per questo è un amore nei riguardi di noi figli
previdente e pensato da sempre. La “riserva” ci ricorda una cosa preziosa da
gustare nei momenti particolari, e qui non si tratta di vini o cibi speciali,
ma del dono della familiarità divina.
vv.
35-36: perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi
avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.
Questa è la
motivazione dell’ingresso nel Regno e richiama le parole di Gesù quando disse: “Beati
i poveri perché di essi è il Regno dei Cieli” (Mt 5,3) e poi specifica le varie
povertà, la fame, la sete, etc.
La ragione
dell’essere benedetti con l’eredità, cioè col divenire familiari di Dio, è aver
dato da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, ospitato i forestieri,
rivestiti i nudi, visitato gli ammalati ed essere andati a trovare i carcerati.
Queste opere di misericordia, che chiamiamo “corporali”, motivano il premio di
coloro che le compiono o in caso contrario la condanna.
Questa
motivazione sembra richiamare anche la quinta beatitudine: “beati i
misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7); ereditare il regno è
infatti frutto della gratuità di Dio, in altri termini della sua misericordia,
ma non può trovare misericordia chi non ha misericordia (cfr. Mt 18,23-35). I
bisogni fondamentali del mangiare, del bere, della sanità e del decoro esterno
sono particolarmente a rischio nelle categorie degli stranieri e dei carcerati,
per i quali l’azione di misericordia manifesta un cuore divino. Significativo
che Gesù nella sinagoga di Nazareth ricorda come Dio stesso sia coinvolto
nell’amore verso questi bisognosi; la prigionia e le necessità dalla quali è
venuto a liberare Cristo (Lc 4,18-19) racchiudono tutte le dimensioni
dell’uomo, verso le quali veramente da parte di Dio si opera una “gheulà”, il
riscatto, la riacquisizione della dignità e della proprietà; positivamente
l’uomo diventa oggetto della “eudokia” di Dio, della sua benevolenza, della sua
misericordia.
vv.
37-40: Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto
affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando
mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo
vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a
visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che
avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a
me».
Quando le genti,
per tre volte, interrogano il re-pastore-giudice per comprendere la valutazione
positiva o, rispettivamente, negativa che hanno ricevuto, egli risponde
affermando che questi bisognosi sono “ i miei fratelli più piccoli” con i quali
Gesù si identifica: “ l’avete (o non l’avete) fatto a me”.
Si pone un non
facile problema d’interpretazione su questi “fratelli più piccoli”. Le ipotesi
sono diverse, ma non necessariamente contraddittorie; fra di esse due in
particolare meritano attenzione: la prima più legata allo stile di Matteo,
l’altra ad una visione teologica più generale. Per la prima interpretazione “i
fratelli più piccoli” sono i discepoli e quindi il criterio del giudizio è
l’aver accolto o respinto il discepolo e il suo messaggio. A sostegno di questa
ipotesi si fa notare che alla fine del discorso missionario (Mt 10,42) si
afferma: “E chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di
questi piccoli (mikroi) perché è mio discepolo, in verità vi dico non perderà
la sua ricompensa”, con la motivazione appena espressa: “chi accoglie voi
accoglie me” (Mt 10,40); anche l’invito di Gesù rivolto ai discepoli affinché
diventino piccoli va sulla stessa linea di identificazione (cfr. Mt 18,2-5).
Inoltre Gesù non solo si identifica con i suoi discepoli che qualifica come
“piccoli”, ma li chiama pure fratelli; infatti in Mt 12,49-50 si legge:
“stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei
fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è
per me fratello, sorella e madre»”. Seguendo questa prima interpretazione,
dunque, le genti verranno giudicate in base al loro atteggiamento nei confronti
dei cristiani e l’accoglienza dovrebbe essersi manifestata mediante gesti di
carità, sulla base del concreto bisogno del discepolo o del credente inviato ad
annunciare Cristo. In tal senso significativo è il rapporto di Paolo con i cristiani
di Filippi, come anche l’espressione dello stesso Apostolo che afferma che i
Galati si sarebbero cavati gli occhi per Paolo, se ne avesse avuto bisogno (cfr
Gal 4,15).
Stando ad una
seconda interpretazione i “fratelli più piccoli” sarebbero i bisognosi di cibo,
di acqua, di cure, di dignità, di attenzione, che per scelte sbagliate
(carcerati) o per la loro razza (stranieri) sono rifiutati come estranei dal
contesto sociale e culturale in cui si trovano a vivere; sono quindi nella
povertà concreta e senza l’intervento di altri sono senza futuro e speranza.
Questo secondo
significato sarebbe motivato dal carattere universale del giudizio, che non può
limitarsi ad una prospettiva ristretta (i soli credenti), ma intende
abbracciare tutti gli uomini, anche se la motivazione non si fonda certo su una
base sociologica, ma cristologia: “l’avete fatto a me”. Questa affermazione
esclude la semplice interpretazione filantropica per riportarla a un contesto
teologico: Gesù si è fatto solidale con i poveri; lui stesso è diventato povero
per compiere la volontà del Padre (cfr. Fil 2,5-11). Le opere di misericordia,
per Gesù, sono la prova di una carità radicale e universale ed anche i
cristiani sono quindi compresi in questo giudizio: nessuno può innalzarsi sopra
il fratello, né i cristiani sugli ebrei, né gli ebrei sui pagani, né chi svolge
un ministero autorevole sul semplice credente (Rm 2,9-16.25-27; 2Cor 5,10s; Rm
14,10s; 1Cor 3,11-15; 1Cor 9,27; Lc 10,30-37).
Matteo ripete in
forma diversa la regola d’oro, proclamata nel discorso della montagna (“Tutto
quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” Mt 7,12)
e nelle dispute (Mt 22,34-40); la comunità cristiana mostra di aver fatto
proprio il linguaggio di Gesù (1Gv 4,21; Gc 1,27; 2,15). Anche l’AT conosceva
le prescrizioni di misericordia (cfr. Is 58,7; Prv 19,17), ma Gesù evidenzia la
necessità di passare dal riconoscimento della validità di una norma astratta
alla sua attuazione nell’amore.
vv.
41-43: Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli perché
ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete
dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».
La vicinanza e
l’allontanamento dal Figlio dell’uomo sono l’immagine della beatitudine o della
punizione. E sono interpellati con una parola durissima: “Allontanatevi da me,
maledetti dal fuoco eterno”.
Perché questa
tremenda espressione “maledetti”? La maledizione è l’esperienza della morte, è
il dominio della morte sulla vita dell’uomo. La prima volta che nella Bibbia si
esprime una maledizione rivolta all’uomo è nel caso di Caino: l’uomo è maledetto,
proprio perché ha ucciso. Ed è questa la maledizione, non è altro che questa.
Non c’è da aggiungere una maledizione che venga da lontano. La maledizione sta
dentro al comportamento dell’uomo che chiama la morte contro il suo fratello,
ma che in realtà la prende sopra di sé; ha fatto un patto con la morte.
Non si dice che
il “fuoco eterno” sia stato preparato prima della creazione del mondo, come si
diceva invece del Regno. Il Regno è stato preparato da prima della creazione
del mondo, mentre del fuoco eterno non si dice. Del “Regno” si dice: “è stato
preparato per voi”. Del “fuoco eterno” si dice: “è stato preparato per il
diavolo”. È significativo: quello che “Dio ha preparato per voi” è solo il
Regno, è solo la Beatitudine. Dio ha creato l’uomo per la vita. Chiaramente il
male va bruciato: tutto ciò che non è amore non può esistere, verrà bruciato
dal fuoco dell’amore.
vv.
44-45: Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto
affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo
servito?».
Allora egli risponderà loro: «In verità io
vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non
l’avete fatto a me».
Ritorna il
“quando”; ritorna ancora affamato assetato, nudo, forestiero, ammalato, in
carcere…, quasi a lasciarci bene impressa questa situazione di povertà
materiale, di povertà morale, di povertà assoluta dove si perde anche
l’onorabilità… tutto, carcere compreso.
Allora ci deve
essere un criterio di valutazione per farci vedere che tutto dipende da quel
che facciamo adesso. “Gesù si identifica totalmente con i fratelli e le sorelle
che ci stanno accanto, chiede di indirizzare a loro le attenzioni. Dio che si
identifica con gli sconfitti della Storia, con gli scarti di un mondo che ha
fatto dell’efficienza e del profitto un idolo” (Paolo Curtaz).
v.
46: E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita
eterna.
Il versetto
chiude il discorso sul giudizio finale: sia per i giusti che per i cattivi (o
maledetti). Sembra che l’evangelista Matteo riprenda le due vie che troviamo
all’inizio del libro dei Salmi: «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei
malvagi, non resta nella via dei peccatori…ma nella legge del Signore trova la
sua gioia» (Sal 1,1-2). Due vie: destra e sinistra, quella della morte e quella
della vita eterna.
Per tutti è
chiaro che ci sta un giudizio e qui vuol dire: separazione, divisione; e la
conclusione del brano è proprio questa. Per fortuna l’ultima parola, l’ultima
immagine, è quella dei giusti e della vita (cfr. Sal 1,5-6).
La Beatitudine è
preparata da Dio per noi. La punizione è costruita da noi per noi stessi, non
da Dio, non l’ha preparata lui; è una realtà di allontanamento della nostra
libertà da Dio.
 
Ci
fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il
Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la
interpella

Apriamo i nostri
cuori a saperlo accogliere nell’oggi nella nostra vita per essere da lui
accolti nell’eternità del suo regno.
Con che cosa mi
identifico: con il bene o con il male?
Chi sono i
fratelli più piccoli di Gesù che io incontro? Sono capace di vedere, amare e
servire Gesù in loro?
Quale via scelgo:
quella della morte o quella della vita eterna?
 
Rispondi a Dio con le sue
stesse parole
(Pregare)
Il Signore è il
mio pastore:
non manco di
nulla.
Su pascoli
erbosi mi fa riposare.
Ad acque
tranquille mi conduce.
 
Rinfranca
l’anima mia,
mi guida per il
giusto cammino
a motivo del suo
nome.
 
Davanti a me tu
prepari una mensa
sotto gli occhi
dei miei nemici.
Ungi di olio il
mio capo;
il mio calice
trabocca.
 
Sì, bontà e
fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni
della mia vita,
abiterò ancora
nella casa del Signore
per lunghi
giorni. (Sal 22).
 
L’incontro con l’infinito di
Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Portare la mente
nel cuore a immedesimarsi nel mistero dell’incarnazione come solidarietà con i
poveri, gli ultimi, gli affamati, … come solidarietà con ciascuno di noi nella
propria singolarità. “Armiamoci di amore e di umiltà e iniziamo a sgrezzare la
nostra anima” (Imitazione di Cristo).
 
 

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