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LECTIO: XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 15,1-32

 


Invocare
O Padre, che in Cristo ci hai rivelato la tua misericordia
senza limiti, donaci di accogliere la grazia del perdono, perché la Chiesa si
rallegri insieme agli angeli e ai santi per ogni peccatore che si converte.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i
peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano
dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 13Ed egli
disse loro questa parabola: 4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne
perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella
perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia
se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini,
e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella
che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo
per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i qua­li
non hanno bisogno di conversione. 8Oppure, quale donna, se ha dieci
monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente
finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le
vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che
avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli
angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il
più giovane dei due disse al padre: “Pa­dre, dammi la parte di patrimonio
che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi
giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un
paese lonta­no e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando
ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli
cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al
servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a
pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui
si nutriva­no i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò
in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e
io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi
salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli
disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai
servi: “Pre­sto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare,
mettetegli l’anello al dito e i san­dali ai piedi. 23Prendete il
vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24per­ché
questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato”. E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al
ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò
uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello
gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello
grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò,
e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli
rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai di­sobbedito
a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei
amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha
divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre
con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e
rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era
perduto ed è stato ritrovato”».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché
penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro
il Testo

Il 15 capitolo del vangelo di Luca occupa un posto centrale
nel lungo percorso di Gesù verso Gerusalemme. Questo percorso inizia in Luca
9,51 e termina in Luca 19,29. Il Capitolo 15 è come la cima della collina da
cui si contempla il cammino percorso e da dove è possibile osservare il cammino
che manca ancora. È il capitolo della tenerezza e della misericordia
accogliente di Dio, temi che si trovano al centro delle preoccupazioni di Luca.
Le comunità devono essere una rivelazione del volto di questo Dio per
l’umanità.

Si tratta di tre parabole.
L’annotazione
introduttiva alle tre parabole del capitolo 15 ricorda che l’accoglienza dei
peccatori era un comportamento abituale
di Gesù, come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si facevano vicini a lui
tutti i pubblicani e i peccatori”. Ma si tratta di un comportamento che spesso
irrita i giusti: non soltanto quelli del tempo di Gesù (“scribi e farisei
mormoravano”), ma anche i cristiani successivi, come Luca spesso ricorda negli
Atti degli Apostoli (11,13).
Le parabole di Gesù hanno un obiettivo ben preciso: il
discernimento. Per mezzo di queste brevi storie tratte dalla vita reale cercano
di condurre chi ascolta a riflettere sulla propria vita ed a scoprire in essa
un determinato aspetto della presenza di Dio.  
 
Riflettere
sulla Parola
(Meditare)
vv.1-2: Si avvicinavano a lui tutti i
pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. i farisei e gli scribi mormoravano
dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro
.   
Questo
brano evangelico proprio all’inizio del capitolo inizia con questa
sottolineatura. C’è fin dall’inizio una sete della Parola, tutti vogliono
ascoltare Gesù. Quello di cui i pubblicani fanno esperienza è il trovarsi alla
mensa della parola di Dio perché piacque a Dio, nel Suo immenso amore, parlare
agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,45s) e intrattenersi con essi
(cfr. Bar 3,38). Questa parola testimonia che Dio è con noi per liberarci dalle
tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna.
Questo
momento redentore è coperto dalla mormorazione: comportamento caratteristico
dell’Israele ribelle a Dio. Quelli che si avvicinano a Gesù è gente che, con le
proprie scelte di vita, si è auto-emarginata. Spesso sono odiati e disprezzati,
e di conseguenza anche loro odiano e disprezzano tutti. Il fatto che si
avvicinano a Gesù è singolare. Sono interessati dal suo discorso e non si
sentono da lui rifiutati. Gesù prende l’iniziativa di aprire una porta al
peccatore perché possa cambiare vita e stare meglio con sé stesso e con Dio.
v. 3-4: Ed egli disse loro questa parabola. Chi di voi, se ha cento
pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di
quella perduta, finché non la trova?
Gesù apre
il suo discorso in parabole rivolgendosi verso coloro che lo ascoltano.
Tra questi abbiamo farisei e scribi. E inizia con una
domanda retorica.
La traduzione letterale ci presenta le parole “quale
uomo…”. La domanda appartiene allo stile di Luca. Di per sé la parola
“uomo” sarebbe superflua, forse è stata introdotta per accentuare il
parallelismo con la parabola seguente che inizia con “quale donna”.
Comunque,
quel “chi di voi” interpella tutti, perché tutti siamo invitati a confrontarci
con la strana e poco probabile storia della parabola.
L’evangelista
Luca parla di pecora perduta più che smarrita e quindi irrecuperabile. Qui
traspare l’immagine di Dio buon pastore, immagine che già incontriamo nell’AT.
L’immagine
del pastore era familiare nella vita palestinese ed era pure un tema classico
delle Scritture. Ogni israelita più volte sentiva leggere e commentare nella
sinagoga Ez 34: Dio, il vero pastore si preoccupa delle pecore più deboli,
fascia quelle ferite e riunisce le disperse. L’abilità di Gesù sta nel mostrare
che la sua accoglienza dei peccatori è conforme alla Scrittura, Allora lo
scandalo di scribi e farisei contraddice proprio quelle Scritture che essi
dicono di venerare e in nome delle quali pretendono di giudicarlo.
Dio non demorde, per lui niente è impossibile. Egli si
mobilita ponendo attenzione e energie su quella pecora perduta. Tuttavia,
lasciare le 99 nel deserto non deve essere valutato come disinteresse o
imprudenza. Si tratta di un elemento narrativo che serve a sottolineare la
condotta premurosa del pastore a favore della pecora perduta. Da notare che il
binomio perduto/ritrovato attraversa tutto questo capitolo 15.
v. 5: Quando l’ha trovata, pieno
di gioia se la carica sulle spalle,
Il pastore riesce a trovare la sua pecora. Il ritrovamento è
sicuro perché il pastore è molto sollecito, è un’immagine di Dio. Il mettersi
la pecora sulle spalle è un gesto abituale nel Mediterraneo. Qui la pecora
doveva essere particolarmente stremata. Importante è anche il tema della gioia,
qui anticipato.
v. 6: va a casa, chiama gli amici
e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia
pecora, quella che si era perduta”.
Il comportamento del pastore è inatteso e poco realistico:
invece di portare la pecora nel deserto, dove si trova il resto del gregge,
egli va a convocare amici e vicini (da dove?); non è inoltre normale radunare
tutto il vicinato e festeggiare soltanto per il ritrovamento di una pecora.
Sembra che Luca abbia preso questo finale dalla parabola seguente (quella della
donna che cerca la moneta) per accentuare il parallelismo dei due racconti.
In queste parole possiamo leggervi la gioia condivisa,
l’immagine del banchetto celeste. Questi motivi emergono in tutte e tre le
parabole.
v. 7: Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo
peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno
bisogno di conversione.
Questo versetto è l’applicazione della parabola. Dal racconto
metaforico si passa al suo vero significato. La pecora perduta è il peccatore
che si converte. L’attenzione si sposta quindi dall’iniziativa di Dio che va in
cerca della persona perduta all’agire umano. C’è anche una dimensione
ecclesiale: l’accoglienza del peccatore pentito nella comunità.
La conversione non è solo un fatto personale ma un bene di
tutti, come del resto il male compiuto dal singolo non è un fatto personale ma
di tutti. Ciò risponde a quei novantanove giusti che non hanno bisogno di
conversione, perché sono entrati in quella dimensione gioiosa della vita
divina.
vv.8-10: Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne
perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché
non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice:
“Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore
che si converte».
Questa
parabola è diversa anche se il significato è lo stesso. La breve storia della
moneta perduta allude al comportamento normale e delle donne povere, che non
hanno molto denaro. Siamo in una casa buia.
La
ricerca inizia con l’accensione della lampada. Le tenebre del peccato si
vincono solo con la Luce che è Cristo (Gv 1,4-5.9). Il secondo gesto è quello
di “spazzare la casa”. La donna troverà il suo tesoro sotto la
spazzatura raccolta nella casa. Così anche il Padre troverà il Suo Figlio, che
non conobbe peccato (2Cor 5,21), tra i malfattori sulla croce (23,39ss.), fatto
Lui stesso peccato e maledizione per noi. In questo modo Dio rivela la sapienza
della sua tenerezza: perde il Figlio per ritrovarlo sotto tutti i fratelli
perduti. Tutto il mondo è casa di Dio, perché vi abita chi lui ama e cerca. Lo
mette a soqquadro e lo ripulisce tutto, in modo che, raccogliendo il Figlio
unico che si è fatto ultimo di tutti, raccolga prima di Lui anche tutti gli
altri. Lui il tesoro, gli altri la spazzatura! E questi gesti esprimono il
cuore di questa donna.
Ella
cerca attentamente (con cura). È lo stesso atteggiamento del Dio di Mosè che
“si prende cura del suo popolo”. È l’amore concreto del Samaritano…
un amore completo e fedele.
v. 11: Un uomo aveva due figli.
Quest’altra parabola inizia con tre
personaggi: un uomo e due figli che sono anche fratelli. L’uomo qui è
Dio-Amore: è padre e madre messo insieme (vedi: Rembrandt, “Il ritorno del
Figliol prodigo”, dipinto del 1669). È la storia di sempre. È Dio, che nel
corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore.
Padre
è colui che ha la Vita e la trasmette gratuitamente. Padre è un nome che dice
Alleanza, comunione d’amore con un partner, il figlio. Dio è Padre perché crea,
redime, santifica; Lui opera per la “pienezza della Vita” (cfr. Gv 3,
16.17).
I due figli indicano la totalità
degli uomini ma anche la loro diversità, sia peccatori che giusti.
Ciò
che li rende diversi è il modo con cui arrivano a conoscere il Padre. La
conoscenza di sé arriva attraverso il rapporto con un tu. Se non ci si
riconosce come figli non ci si può riconoscere fratelli.
Per il Padre siamo sempre e solo
figli, perché Dio ha “compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi
sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento” (Sap 11,23).
Questi
due fratelli sono il richiamo di tanti fratelli in lotta fra di loro: Caino –
Abele; Giacobbe – Esaù; Giuseppe – i suoi fratelli.
v. 12: Il più giovane disse al padre:
Padre dammi la parte del patrimonio che mi spetta.
Nel figlio
giovane c’è un’aria di tenerezza e affetto. Lui stesso si sente figlio tanto è
vero che solo lui dirà “padre” … il maggiore non lo dirà mai. In questo giovane
l’uomo di tutti i tempi. Egli chiede il patrimonio, la “sostanza” del
padre. Non è arrivato a sapere che la “sostanza” del padre è identica
alla sostanza del figlio. Non sa che tutto ciò che è del padre è del figlio. Gesù
ci ricorderà che il Figlio è “consustanziale” al Padre.
In questo
figlio c’è Adamo (Gen 3) col suo peccato! L’uomo si sottrae alla Paternità. Il
Padre diventa una presenza ingombrante. “Il patrimonio che quel tale aveva
ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali ma più importante di
questi beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna” (Giovanni
Paolo II). Con questa richiesta il figlio introduce la giustizia nella vita di
famiglia. Lì dove l’amore dovrebbe essere regola unica e suprema ora c’è la
giustizia. L’umanità non è più famiglia ma un insieme di concorrenti che si
contendono la felicità. La comunione è finita, l’unità spezzata. C’è il
“mio” e il “tuo”.
Ed egli
divise tra loro le sue sostanze.
Il Padre
non parla, non si mette a discutere col figlio. Avrebbe potuto dirgli:
“Che cosa devo fare ancora per te, che io non abbia già fatto? Perché,
mentre attendevo che producessi hai dato comportamenti selvatici? (cfr. Is
5,4). Il Padre non reagisce nervosamente ma con-divide. Lui, in silenzio, porta
il peso di un gesto insensato.  Di fronte
alla scelta del figlio minore non oppone resistenza. Fa spazio all’esistenza
dell’altro. Si ritira perché il figlio viva. Dio fa spazio alla dignità delle
sue creature. Lui, l’Onnipotente, non va contro la nostra volontà. Non ha paura
del giudizio degli altri. La forza che il padre usa è quella dell’amore. Il
comportamento del padre è suggerito dal desiderio di lasciare al figlio una
possibilità di ritorno. Di ritrovare la casa. Il padre non vuole rompere con
questo figlio ribelle.
v. 13: Pochi
giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un
paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.  
Il peccato
entra nel tempo quotidiano, nella vita. C’è nel figlio la fretta di partire. Il
principio dell’avere, del possedere non è un principio di comunione e di
armonia. Creare un’unione economica significa creare una comunione fragile.
L’unione economica finisce nella discriminazione. Come Adamo, questo figlio si
orienta non più sulle persone ma sulle cose. C’è nell’uomo il desiderio di
essere padrone, di non fare riferimento ad altri. Questo figlio non saluta, non
si congeda. Raccoglie e parte.
C’è in lui
la preoccupazione di chi accumula tesori che la ruggine e la tignola consumano.
Non vive per il Regno e la sua giustizia. Per questo figlio sono importanti le
“cose”, non l’unità e l’armonia familiare. La sua vita esce dalla
relazione d’amore. Esce dalla casa come Adamo (Gen 3,8-10). Ma il salmista si
interroga: esiste un posto lontano dal Signore? (Sal 139,7-12).
Questo
paese lontano è il luogo dove si sciupa tutto. Il figlio perde tutto perché
vive da dissoluto (=à – sotòs= senza salvezza), da misero, da peccatore. E il
suo peccato è vivere per “poco”. Non vive in pienezza. Dio ci ha
fatto per il “tutto”.
Quando ci
si allontana dalla “pienezza” si è “come i tralci che si seccano
e vengono gettati via. Solo chi rimane nella vite porta molto frutto” (Gv
15,5-6).
vv. 14-16: Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese
una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a
mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei
suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui
si nutriva­no i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Stare lontano da Dio porta alla dissipazione dei beni. Sperperare i
beni significa svuotarsi interiormente vivendo nel non senso, privo di
speranza, senza nessun futuro. Quindi, sperperati questi beni, queste sostanze,
avviene la carestia che costringe a comportarsi in un determinato modo,
cercando una certa autonomia dal Padre. Si mette a servizio non del Padre, ma
di un suo simile.
Il
servizio che deve rendere a quest’uomo è tra i più immondi e infamanti per un
ebreo: “pascolare i porci”. Tutto ciò ci dà l’idea del livello di
degrado in cui quest’uomo è caduto: è posto lì a servizio dei porci, non più di
Dio. Anzi questo mestiere impuro
gli impedisce ogni relazione con Dio e col
prossimo.
L’uomo è oramai solo con sé stesso, perduto, in un
paese straniero, lontano dalla casa, dal focolare. Il suo sostentamento può
essere solo quel cibo dato ai porci.
L’uomo ha toccato il fondo perché equiparato ai
porci.
v. 17:
Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno
pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
L’uomo legge
la sua realtà. Si sta leggendo dentro e inizia a fare il cammino di ritorno. Finora
ha frugato nel fango e ha sperimentato il passare di tutte le cose. Ha capito
il valore e il limite delle cose, ora deve conoscere sé stesso. Prima di
trovare il padre bisogna trovare sé stessi.
Ritornare
al proprio cuore. La presa di coscienza della propria situazione. Quel cuore
dove “erano nati i propositi malvagi, gli adulteri e le
prostituzioni” (Mt 15,5) ora deve essere rivisitato. Lì l’immagine di Dio
è oscurata, ma non cancellata. Il cuore è dove si prepara l’incontro amoroso
con Dio. Il prodigo ha un cuore passionale, esagerato, facilmente deviabile ma,
nello stesso tempo, insaziabile di felicità.
Nella profondità del cuore il figlio trova la
strada di casa. Ha perso tutto, ma non la memoria dell’amore del padre. I beni
gli ricordano qualcuno che li dona.
Dopo aver guardato fuori e lontano ora inizia il cammino
del ritorno. Inizia la conversione attraverso una molla egoistica: sto male e
vorrei stare meglio.
Per convertirsi occorre chiarezza sulla propria
situazione. La sincerità è un requisito necessario per arrivare alla salvezza.
Anche se qui, il figlio si mette dalla parte dei salariati e non del Padre.
vv. 18-19: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te
Testimone
del mio peccato è il cielo, il Padre. Il figlio avrebbe potuto elencare una
serie di peccati: una vita dissoluta, lo sperpero delle ricchezze paterne… ma
ora riconosce che tutto questo ha rotto il rapporto col Padre. Il peccato rompe
la dimensione religiosa dell’uomo. Non è solo una trasgressione morale, è
rottura dell’alleanza d’amore tra un padre e un figlio. Il peccato immiserisce
i doni celesti.
non sono
più degno di essere chiamato tuo figlio.
Essere
figlio non è questione di dignità o di meriti. Si è figli per dono gratuito. Il
vero male del peccatore non è il peccato, ma il guardare sé stesso. Questo lo
fa cadere nella tentazione di non essere degno dell’amore di Dio. E questo è il
peccato del giusto: rifiutare l’amore gratuito di Dio.
Chi guarda
a sé vede il proprio fallimento, ma chi guarda a Dio scopre la sua identità:
sono sempre figlio e figlio amato. Il figlio “rientrato in sé stesso”
si scopre “servo” del peccato; nel ritornare dal padre si scoprirà
figlio.
Trattami
come uno dei tuoi salariati
.
“Essere
garzone nella casa del Padre è certamente una grande umiliazione e vergogna. Tuttavia,
il figlio è pronto ad affrontare tale umiliazione e vergogna. Egli si rende
conto che non ha alcun diritto se non quello di essere mercenario in casa del
Padre” (Giovanni Paolo II). Anche nel figlio minore è presente il rischio
del peccato del fratello maggiore. Davanti a lui più che l’immagine patema c’è
quella del padrone.
In questa
confessione c’è però un volersi mettere totalmente a disposizione del padre:
fa’ di me ciò che tu vuoi. Non voglio gestire io la mia vita. Voglio che la
gestisca tu. Sei Tu mio padre! Davanti al padre vuole presentarsi nella più
completa povertà, di cuore e di vita. Servo, ma figlio. Quindi figlio
obbediente.
v. 20: Si alzò e tornò da suo padre. In questi due verbi abbiamo
Se fin
d’ora abbiamo parlato del figlio adesso subentra il padre in una scena
travolgente. Il padre qui è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per
rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento. Per
capire, l’evangelista usa per noi dei verbi: i verbi dell’amore.
Quando era
ancora lontano …
Il
processo di conversione, o meglio di maturazione interiore verso il padre, era
ben lungi dall’essere compiuto, infatti, “era ancora lontano”. Ma a
Dio non interessa che l’uomo sia pienamente convertito, né gli importa sentire
parole di conversione. Per Dio è importante cogliere nell’uomo almeno un
accenno di pentimento, al resto pensa lui. Non è l’uomo, infatti, che si salva
con il suo pentimento, ma Dio compie la sua salvezza. L’importante è che l’uomo
si renda disponibile. Basta poco!
lo vide,
ebbe compassione, gli corse incontro…
quattro
verbi e un aggettivo (commosso) definiscono tutta la dinamica del grande amore
di questo padre: “lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al
collo e lo baciò”. È l’esplosione di un amore incontenibile che,
finalmente, può esprimersi nella sua pienezza. Giovanni nel suo vangelo ci
ricorda proprio questo amore: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il
suo Figlio” (Gv 3,16). Dio ama sempre per “primo”. L’amore non
conosce la lontananza. Tutta la Bibbia ci narra di Dio che cerca l’uomo:
“Adamo dove sei?” (Gen 3,9). È il padre che soffre perché il figlio è
distante.
Gesù è,
dunque, il volto storico di questo amore del Padre che, attraverso suo Figlio,
incontra gli uomini, li interpella, li abbraccia e cerca di far loro capire le
dimensioni del suo amore per loro, stimolandoli a dare una risposta.
vv. 21-22: Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato
verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo
figlio».
Nella sua
confessione riscopre la sua vocazione. Di fronte al padre, alle sue tenerezze,
non dice che vuole essere servo. Ora, di nuovo, sa che il padre lo ama. L’amore
del padre lo cambia. Si riconosce figlio.
Ma il
padre disse ai servi …
Al padre
non interessano le giustificazioni del figlio. L’importante è il ritorno. Basta
poco e il gioco è fatto! Il figlio viene rivestito con il vestito più bello,
con l’anello e con i calzari.
Questo
breve elenco di oggetti con cui viene rivestito il figlio stanno ad indicare la
ricostituzione dell’uomo nella sua primordiale dignità. L’abito bello indica il
nuovo stato di vita di cui l’uomo, con la redenzione, viene ricoperto. Paolo ci
ricorda questo nella sua lettera ai Galati: “poiché quanti siete stati
battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). Il senso
di questo vestito appare ancor più chiaro se riflettiamo su quanto la lettera
ai Colossesi ci propone: “Anche voi un tempo eravate così, quando la
vostra vita era immersa in questi vizi. Ora, invece, deponete anche voi tutte
queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra
bocca … Vi siete, infatti, spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e
avete rivestito il nuovo, che si rinnova … a immagine del suo Creatore”
(Col. 3, 8-10). L’anello, di cui viene adornato, è probabilmente un sigillo,
indice di un potere di cui è stato nuovamente insignito; mentre i sandali
indicano il suo stato di uomo libero; gli schiavi, infatti, camminavano a piedi
nudi.
Con questi
brevi tocchi Luca ci dice come l’uomo, investito dall’amore del Padre, che si è
attuato e concretamente manifestato in Cristo, è stato rigenerato alla stessa
vita di Dio, che condivide pienamente.
v. 23: Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa
Il sacrificio grasso (lett. di grano)
immolato, che si “mangia”, “facendo festa” è un’allusione
all’eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l’Agnello immolato
per quell’amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
È l’inizio dell’unica festa che si compie una
volta sola per sempre, senza fine.
Questa della gioia di Dio nel perdonare è il
nocciolo più originale del messaggio biblico-cristiano. Altri annunciano di Dio
la potenza, altri la giustizia, altri l’ordine…: noi cristiani annunciamo che
la potenza di Dio è l’amore e la misericordia, che egli sa vincere il male col
bene, che Dio è amore e perdono onnipotenti.
v. 24: perché questo mio figlio era morto
Ecco la
motivazione di tanta festa: la conversione dell’uomo a Dio, il passaggio da
morte a vita. Con la sua conversione, infatti, l’uomo viene associato in
qualche modo alla dinamica pasquale e viene investito dalla morte e
risurrezione di Gesù. La conversione, pertanto, dice questo passaggio pasquale
da morte a vita in cui Cristo ci ha trascinati.
Il vivere
del credente, pertanto, è un vivere continuamente in uno stato di conversione,
cioè in un continuo passare da morte a vita così che la vita del cristiano è
una vita squisitamente pasquale.
vv. 25-28:
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa,
udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse
tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto
ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
Egli
si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.
Entra ora
in scena il terzo personaggio: il figlio maggiore. Nella Bibbia il maggiore è
Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto ma anche nella vita di
tutti i giorni, il figlio maggiore è colui che vive nel giusto o che crede di
essere nel giusto e va in cerca dei ripari. Qui rappresenta il mondo
perbenistico dei farisei, che mal digerivano il comportamento di Gesù, che
frequentava e prediligeva i pubblicani e i peccatori e si lasciava avvicinare e
toccare dalle prostitute. Sembra, a prima vista un figlio esemplare che
riscuote la nostra simpatia e la nostra comprensione. Insomma, parteggiamo
tutti per lui. Ma proviamo a vedere un po’ più a fondo questa figura.
Entrambi i
fratelli tornano alla casa del padre, ma soltanto il fratello minore vi entra,
mentre l’altro, di fatto, rifiuta di entrarvi e contesta le logiche del padre.
Anche lui, come i farisei “mormora”, cioè si ribella al padre e non
accetta le sue logiche, non rispetta le sue esigenze.
vv. 29-30: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far
festa con i miei amici…
Vediamo
come qui il figlio maggiore non si pone nei confronti del padre come un figlio,
ma come un servo, ritenendo implicitamente il padre non un padre, ma un padrone
a cui va data obbedienza e non amore; infatti afferma: “non ho mai
trasgredito un comandamento”. Il rapporto con il padre è regolato da una
relazione giuridica e da una mera formalità esecutiva di comandi a fronte del
quale il figlio si aspettava un compenso, mai venuto e per questo rinfacciato
al padre: “tu non mi hai mai dato un capretto per far festa”, quasi a
dire: “mi hai sempre trattato da schiavo e sfruttato”. Questi erano i
rapporti del figlio maggiore con il padre.
Il figlio
maggiore, inoltre, mostra tutto il suo disprezzo nei confronti del padre:
“Ma ora che questo tuo figlio …”. Il fratello maggiore disprezza il
fratello minore, respinge e insulta l’amore che il padre ha riversato su questo
figlio ritrovato e prende le distanze sia da uno che dall’altro: “questo
tuo figlio”.
Il ritorno
di questo fratello inquina la gioia della festa. È un figlio anche lui ammalato
di invidia e di gelosia. Per lui amare sarebbe stato partecipare alla festa per
il fratello perché “Dio lo si ama amando il prossimo”(cfr. 1Gv 4,20).
Invece questa festa segna una nuova divisione nella famiglia. Anche lui vuol
far festa ma non con il padre, con il fratello ma con gli amici.
Non parla di suo fratello come tale, non lo chiama fratello,
bensì “questo tuo figlio”, come se non fosse più suo fratello. Ed è
lui, il maggiore, che parla di prostitute. È la sua malizia che interpreta così
la vita del fratello giovane.
In queste righe rimane
l’atteggiamento diverso del Padre. Lui esce di casa per i due figli. Accoglie
il figlio giovane, ma non vuole perdere il maggiore. I due fanno parte della
famiglia. L’uno non può escludere l’altro!
vv. 31-32: Gli rispose il padre:
Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo
Il padre cerca di far entrare nella
logica dell’amore e della festa colui che è rimasto sempre impigliato
nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza di una religione rigida
che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e soprattutto perdono. Lo
chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante della religione: “tu hai
un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel suo cuore, nelle sue
attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci, ma un figlio che
gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni, abbracciami, baciami
ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello, nella festa del
perdono. Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato; come hai un
padre, una casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
bisognava far festa e rallegrarsi,
perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è
stato ritrovato.
Il padre non rinnega il comportamento
tenuto nei confronti del secondogenito e riconferma la sua gioia. La
sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si chiude il racconto, rimanda
al finale delle due parabole precedenti in cui si assicura la gioia celeste per
il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La Parola del Padre ci conduce a
deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla nostra religione fatta di
leggi ed entrare in una religione imperniata sull’amore per cui il padre
accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo. Senza condizioni, perché sono
suoi figli e basta.
La parabola non rivela la reazione
del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Volutamente Gesù
lascia le cose in sospeso: ricordando che la parabola è rivolta in primo luogo
a farisei e scribi, e ad ogni lettore.
A Gesù sta a cuore far intravedere
ai suoi ascoltatori di ieri e di oggi, peccatori e presunti giusti, il modo con
cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio
sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
La parabola possiamo concluderla
così: “Figlio, ritorna anche tu!”. E il vangelo non dice se il figlio
ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio è giustificato dal fatto che
la risposta deve essere ancora data!
 
Ci fermiamo in silenzio
per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché
l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La
Parola illumina la vita e la interpella

La nostra comunità rivela agli altri qualcosa di questo amore
pieno di tenerezza di Dio Padre?
quale idea di Dio abbiamo? Gesù non
racconta le parabole anche per noi?
Sono aperto al perdono verso i
miei fratelli? Riconosco solo il loro peccato o anche il fatto che Dio li ama
incondizionatamente?
Vivo il perdono – soprattutto
sacramentale – con il cuore pieno di gioia, “felice come una pasqua”?
 
Rispondi a Dio con
le sue stesse parole
(Pregare)
Pietà
di me, o Dio, nel tuo amore;
nella
tua grande misericordia
cancella
la mia iniquità.
Lavami
tutto dalla mia colpa,
dal
mio peccato rendimi puro.
 
Crea
in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova
in me uno spirito saldo.
Non
scacciarmi dalla tua presenza
e non
privarmi del tuo santo spirito.
 
Signore,
apri le mie labbra
e la
mia bocca proclami la tua lode.
Uno
spirito contrito è sacrificio a Dio;
un
cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi. (Sal 50).
 
L’incontro
con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Per imparare ad essere misericordiosi
e a non pretendere dagli altri, ripeti spesso e vivi oggi la Parola: “Mi
indicherai il sentiero della vita” (Sal 15,11).
 

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