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LECTIO: XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno A)

Lectio divina su Mt 13,1-23

 
Invocare
Accresci in noi, o Padre, con la potenza
del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che
continui a seminare nei solchi dell’umanità, perché fruttifichi in opere di
giustizia e di pace e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno. Per
Cristo nostro Signore. Amen.
 
In
ascolto della Parola
(Leggere)
1Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al
mare. 2Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una
barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse:
«Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte
cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un’altra
parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito,
perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu
bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un’altra parte cadde sui
rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte cadde sul
terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi
ha orecchi, ascolti».
10Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero:
«Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a
voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti
a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha, sarà
tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole:
perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così
si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non
comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete.
15Perché il cuore di questo popolo è diventato
insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché
non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con
il cuore
e non si convertano e io li guarisca! 16Beati
invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In
verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che
voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo
ascoltarono!
18Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni
volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno
e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo
la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui
che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, 21ma non ha in
sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una
persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22Quello
seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del
mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto.
23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e
la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per
uno».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché
penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro
il Testo

Continua il discorso di Gesù, questa
volta in parabole di cui il capitolo 13 di Matteo è costituito. Le parabole
sono sette, tre delle quali sono comune ai sinottici: il seminatore e la sua
spiegazione; il granello di senape; il lievito nella pasta; il buon grano e la
zizzania e sua spiegazione; il tesoro occultato; la perla preziosa; la rete e
sua spiegazione (quest’ultime quattro sono proprie del vangelo di Matteo).
Sette le parabole perché per l’Ebreo il numero sette rievoca i sette giorni
della settimana e della creazione, il simbolo della storia del mondo. A questo
settenario si aggiunge ancora un’ottava parabola (vv. 51-52). Con le parabole
Gesù rivela “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo” (13,35); non si
tratta dunque di un linguaggio esoterico o criptico, ma di rivelare cose che
operano in maniera segreta e imprevedibile come sono i disegni di Dio. Infatti,
le parabole hanno come tema il mistero del regno dei cieli.
Matteo colloca la parabola della semente
con gli eventi precedenti dei capitoli 11 e 12 dove è menzionato il regno di
Dio che soffre violenza.
Un’altra caratteristica di questo
capitolo è che per le prime due parabole (quella del seminatore e quella della
zizzania) vi è una netta separazione tra i discepoli e le folle: le parabole
sono per le folle ma la loro spiegazione è riservata unicamente ai discepoli.
Tutto questo capitolo si muove tra la
casa e il mare e quasi tutte si ispirano al tema del seme, della semina e della
mietitura.
 
Riflettere
sulla Parola
(Meditare)
v.
1: Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare.
La parabola inizia con questo incipit,
quasi a sottolineare che il tutto accade in un solo giorno. Questo incipit è
importante, in quanto “quel giorno” è un Kairos. È la giornata delle
parabole, dette in circostanze diverse, ma che l’Evangelista ha raggruppato
qui.
Viene evidenziata una casa da cui Gesù
esce. Essa è quella in cui aveva preso dimora a Cafarnao e dove si ritrova con
i suoi discepoli (la casa di Pietro a Cafarnao). Questo suo uscire viene messo
in relazione al v. 3 dove viene indicato l’uscita del seminatore. Matteo a
differenza di Marco vuole indicare il passaggio dalla rivelazione speciale
riservata ai discepoli alla rivelazione pubblica aperta alla folla.
Nell’uscire siede lungo il mare per
insegnare come un Rabbi. Il mare è il luogo di passaggio verso i popoli pagani,
quindi, rappresentava la frontiera fra Israele e il mondo pagano. Il mare è il
luogo dell’esodo.
Lo sfondo del discorso in parabole è,
quindi, il lago di Genesaret, chiamato “mare” secondo l’opinione della gente. Questa
diventa la cattedra del suo insegnare. Il mare o il lago richiama il momento in
cui Gesù aveva chiamato i suoi discepoli (4,18).
v.
2: Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a
sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
E mentre Gesù è seduto in riva al mare,
sorpreso dalle stesse folle che affluiscono a lui, è costretto a salire in
barca, affinché la Parola possa giungere a tutti. Gesù, Parola incarnata,
riunisce. Essi ascoltano Lui seduto su una barca.
La barca, simbolo della missione della
Chiesa, (mentre la Chiesa in sé è rappresentata dalla casa di Pietro) poteva
sollevare il maestro dal suo uditorio, divenuto troppo numeroso. Ma data la
crescente ostilità dei farisei, la si può anche considerare come una misura di
sicurezza.
Qui troviamo un gruppo che sembra non
fare il loro esodo: la folla. Gesù, nuovo Mosè, vuole aiutare la folla ad
aderire al Regno di Dio. Per farlo usa le parabole.
v.
3: Egli parlò loro di molte cose con parabole.
A differenza di Marco che parla di
“insegnare”, Matteo qualifica il linguaggio come un parlare. I
destinatari del suo parlare sono le folle. Il termine “molte cose”
può essere anche inteso come un parlare loro a lungo, tutto il giorno.
Che cos’è la parabola? Diverse sono le
traduzioni per capire: un paragone, una similitudine, qualche volta un po’
enigmatica, con la realtà naturale o sociale, che serve ad illustrare in modo
allusivo, un po’ misterioso, una realtà che non è dell’ordine naturale, come
appunto il regno di Dio. Una giusta definizione può essere questa: «una
metafora o una similitudine tratta dalla natura o dalla vita quotidiana che
colpisce l’ascoltatore con la sua vivezza e originalità e lo lascia in quel
minimo di dubbio riguardo il significato dell’immagine sufficiente a stimolare
il pensiero» (C. H. Dodd).
E
disse: Ecco, il seminatore uscì a seminare.
L’accento cade sull’attività del
seminatore, protagonista del racconto parabolico. Matteo mette davanti
l’articolo. Ciò vuole alludere al grande Seminatore per eccellenza Gesù che
«uscito» dal Padre è venuto nel mondo a gettare il seme salvifico della Parola.
C’è un brano del libro del profeta Isaia:
55,10-11, in cui si dice che: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal
cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata
e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così
sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza
aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Possiamo pure dire che è una parabola in
movimento, in atto perché spiega cosa sta accadendo in quel preciso istante.
vv.
4-8: Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la
mangiarono.
Il contadino palestinese prima semina e
poi ara. Semina ovunque e poi passa l’aratro. Facendo un po’ di attenzione,
possiamo notare che Matteo non accenna all’aratro o all’aratura. Allora di cosa
si tratta?
Certamente non si sta parlando di
agricoltura. Del seminatore possiamo dire che non sapeva dov’era il terreno
buono e fertile, in quanto in Israele il terreno è roccioso; quindi, spine e
rovi potevano crescere più rapidamente del grano e soffocarne la crescita.
Il soggetto resta il seminatore, però
l’attenzione è portata sul seme, anzi sui semi. L’evangelista qui non fa altro
che mettere in evidenza la fiducia usata dal seminatore, da Gesù, in quel
piccolo seme gettato, che sa farsi strada nella terra arida e nel terreno buono
senza sapere qual è, dà fiducia a tutto il terreno. Così è Dio: dà fiducia a
tutti, nessuno escluso, perché tutti campo di Dio!
Un’altra
parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito,
perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e,
non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la
soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento,
il sessanta, il trenta per uno.
Il seminatore sapeva che da qualche parte
il terreno era buono e gli avrebbe dato un buon raccolto: il trenta, il
sessanta, il cento per uno.
In questi pochi versetti l’evangelista
descrive quattro terreni. La strada: che vuole indicare l’impenetrabilità e
quindi non può crescere, nascere qualcosa di buono. I sassi: rappresentano il
facile entusiasmo, le persone volubili, superficiali. All’inizio la cosa
prende, ma alla prima difficoltà finisce tutto.
Le spine: descrivono le condizioni
esterne soffocanti, quando cioè la persona è sottoposta a grosse pressioni e
non ha una struttura di personalità sufficientemente forte. Prova a crescere ma
viene soffocata dall’esterno che è più forte della sua spinta interna. Il
terreno buono: qui solo il seme germoglia e porta molto frutto.
La conclusione è che la triplice
infruttuosità è controbilanciata, e in modo sovrabbondante. Il pessimismo
iniziale cede il posto all’ottimismo. Il 100 è il numero della benedizione
plenaria, come avvenne a Isacco quando seminò a Gerar (Gn 26,12). Nei numeri
simbolici 100 (multiplo di 5 e di 50), la pienezza, 60, altra forma di pienezza
(5 x 12) e 30, ennesima forma di pienezza (3 x 10).
v.
9: Chi ha orecchi, ascolti”.
Nel Nuovo Testamento l’espressione ammonitrice
la ritroviamo in ognuna delle sette lettere che il Cristo indirizza alle «sette
Chiese dell’Asia minore» (cfr. Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22; 13,9).
Se la Parola è seme, la terra che
l’accoglie è come l’orecchio che ascolta la parabola. Quindi la parabola
narrata è seme. Seme della fede e della speranza che non delude.
Questo seme Dio “lo getta” a tutti, da
sempre. E da sempre invita all’ascolto di Lui (cfr. Dt 5,1; Pr 2,2; Bar 3,9;
Sal 78(77),1). L’evangelista Matteo ce lo ricorda dicendoci che il parlare di
Dio non è subito comprensibile: chi ha orecchi, cioè capacità di comprendere
attentamente, si metta in ascolto e cerchi di capire!
Solo quando viene ascoltato, e solo
allora, il seme della Parola di Dio diventa vocazione, chiamata forte e vera a
seguire e corrispondere l’amore grande di Dio per l’uomo.
vv.
10-11: Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché a loro
parli con parabole?”. Egli rispose loro: “Perché a voi è dato conoscere i
misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”.
I versetti fanno osservare una certa
riserva tra la folla e i discepoli. La parabola che Gesù racconta è un modo (o
un invito) per stare accanto al Signore. Infatti, non è un racconto per venire
incontro ai semplici. I discepoli stanno già col Signore, ma tanti altri no.
Infatti, il verbo “avvicinare” vuole proprio indicare questo rapporto intimo
dei discepoli con il Signore.
Discepolo vuol dire “disposto a
imparare”. Se uno non vuole imparare è discolo, non è discepolo. Il discepolo è
uno disposto ad accettare qualcosa di nuovo e questo indica l’apertura della
mente. Ma sarà vero discepolo se a sua volta rivelerà quanto ha imparato
insegnando ad altri fin quando non arriverà alla visione perfetta di Dio (1Cor
13,12; Gv 16,29).
Tra la folla possiamo trovare persone dal
cuore chiuso e anche persone dal cuore aperto. La parabola ti parla a seconda
della tua apertura di cuore. Tanti ascoltano e si allontanano, senza che le
parabole siano diventate per loro l’occasione per stare con il Signore. Qui
come in Mt 12,46-50 vi è una distinzione tra le folle e i discepoli. È quanto
appare nella Chiesa delle origini, “che voleva passar oltre le parabole per
cogliere direttamente la rivelazione a essa offerta dal Cristo” (G. Ravasi).
Incomincia a delinearsi la spaccatura
palese nella parabola dell’ultimo giudizio (25,31-46). Chi possiede è il
discepolo del Regno, chi non possiede è Israele che rischia di perdere tutto.
v.
12: Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che
non ha, sarà tolto anche quello che ha.
È la conclusione. È il valore finale di
chi è disposto ad imparare, ad accogliere il seme della Parola. Forse possiamo
cogliere il senso di quest’espressione dura nella parabola dei talenti
(25,14-30). Tutti hanno ricevuto dall’inizio i loro talenti. Alcuni li
sfruttano e dunque abbondano nella gioia del Signore; altri li congelano
rendendoli sterili. A questi è tolto tutto, poiché è come se non avessero mai
avuto.
Anche qui Matteo sta dicendo la stessa
cosa: le parabole hanno precisamente questo doppio effetto: aggiungono e
tolgono. Più uno già sa, più è in grado di aggiungere conoscenze al suo sapere.
Non a tutti, però, è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma solo
alle persone ben disposte, a quelle che accolgono le sue parole e le vivono.
Questa Parola di vita ci mette in guardia
quindi contro una grave mancanza in cui potremmo cadere: quella di accogliere
il Vangelo, facendolo magari solo oggetto di studio, di ammirazione, di
discussione, ma senza metterlo in pratica.
vv.
13-15: Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono,
udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di
Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non
vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono
diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli
occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si
convertano e io li guarisca!
Gesù non intende forzare a capire
nessuno. Parla e agisce con chiarezza, ma le folle non comprendono. Per questo
ricorre al linguaggio delle parabole che, essendo più velato potrà stimolare le
folle a pensare di più, a riflettere sugli ostacoli che impediscono la loro
comprensione dell’insegnamento di Gesù.
In qualche maniera la storia si ripete.
Qui viene ricordato il tempo del profeta Isaia quando la gente era chiusa alla
Parola di Dio.
Il testo di Isaia, uno dei più citati nel
NT, serve a spiegare l’insuccesso della predicazione di Gesù, come già quella
di Isaia (6,9-10) stesso: non si tratta di un giudizio di condanna. 
«L’indurimento del cuore, la miopia dello
spirito, la sordità della mente del popolo spingono dunque Gesù a usare un
annuncio della sua verità attraverso il velo dei simboli. La causa di questo
modello di predicazione è, dunque, la povertà spirituale degli ascoltatori e la
loro superficialità» (G. Ravasi).
vv.
16-17: Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché
ascoltano
Dopo le terribili parole di Isaia, Matteo
riporta delle parole di approvazione rivolte da Gesù ai suoi discepoli partendo
da una beatitudine. I discepoli sono esattamente in contrapposizione a loro, hanno
occhi che vedono, cioè, sono venuti alla luce. Sono illuminati e capiscono la realtà.
E questi sono nella beatitudine.
Non è la prima volta che Gesù dice
“beati”. Già l’AT risuona la beatitudine in coloro che ascoltano la Parola di
Dio (cfr. Dt 6,3; Sal 1,1-3; 94,12s; 106,3; 112,1-5; 128; Pr 8,34; 29,18; Sir
14,20-27; Bar 4,4). Ma anche in altre pagine del NT lo si riscontra (cfr. Lc 11,28;
Ap 1,3; 22,7). La beatitudine inoltre ha molteplici sfumature. È legata a un
vedere in profondità, a un cogliere quello che Gesù voleva comunicare.
In
verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che
voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo
ascoltarono!
Questa beatitudine è il desiderio di
tutta la storia umana, della sua verità profonda, della profezia e dei giusti. La
beatitudine ci riguarda ancora oggi. Saremo beati ogni qualvolta ci mettiamo in
ascolto della parola di verità, della parola del Figlio, della parola che ci fa
fratelli, della parola che ci dona la vita di Dio, che ci dona lo Spirito
Santo, che ci dona il Suo Amore.
v.
18: Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore.
Da qui inizia la spiegazione della
parabola. Qui abbiamo un imperativo ed ha lo stesso sapore del credo religioso
di Israele: “Ascolta Israele” (Es 6,4). Il termine dell’ascolto è ripetuto in
ebraico per altre 1159 forme. L’ascolto non deve essere sterile ma fattivo.
L’udire nell’ascolto biblico richiede un
atto mentale del comprendere e per il popolo ebreo quest’aspetto non è
separabile dai sensi. Quindi interesse, applicazione e studio, se si vuole
prendere sul serio la Parola.
Per questo Gesù dice: voi, dunque, che
potete capire e non avete il cuore indurito, ascoltate la spiegazione della
parabola, iniziate a capire il mistero della Parola dentro di noi.
Essa viene chiamata la parabola del seminatore,
ma la si può chiamare anche “dei quattro terreni” che corrispondono a
diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della
propria esistenza e del suo ascolto della parola di Dio. L’uomo è identificato,
col seme, col terreno e il suo modo di ascoltare.
v.
19: Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il
Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme
seminato lungo la strada.
Questa spiegazione inizia al singolare, a
differenza di Marco. È l’impegno personale, il banco di verifica del vero
ascolto e della vera comprensione. È necessario entrare nel suo significato
profondo e salvifico (più che intellettuale) della parola del Regno per evitare
il Maligno.
Il primo terreno corrisponde a quel seme
gettato lungo la strada. Matteo lo identifica con l’uditore che lo riceve. Su
questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare. “Il maligno”,
espressione tipica di Matteo e Giovanni, è stata ricollegata all’ “impulso cattivo”
che fa lotta con quello buono nel cuore dell’uomo. Il male ha origine nel non
ascolto e nella disobbedienza.
vv.
20-21: Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la
Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante,
sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola,
egli subito viene meno.
Il secondo terreno corrisponde al seme
gettato sui terreni sassosi. Qui abbiamo le tre componenti dell’uomo: identificato
col seme, cioè con la Parola, con la terra e il modo di accogliere la Parola. La
risposta è accogliente, cordiale, gioiosa, ma “momentanea”, cioè di breve
durata: c’è un problema di impazienza, di incostanza, di mancanza di radici che
viene messo in luce nei momenti di persecuzione o di tribolazione.
All’entusiasmo dell’inizio segue la discontinuità della scelta, dovuta
sicuramente a esperienze di sofferenza e persecuzione, inevitabili in ogni
cammino di fedeltà all’ascolto di Dio.
La Parola non dà frutto a causa di una
tenuta insufficiente: nella prova, “subito” uno viene meno.
v.
22: Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la
preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed
essa non dà frutto.
Il terzo terreno è quello infestato da
spine. Qui c’è stata sia l’accoglienza, sia una certa durata nel tempo:
qualcuno che ha dato una buona prova di sé. Purtroppo, alle preoccupazioni
materiali, a un cuore pieno di paura, senza speranza e allora davanti alle
difficoltà si cede subito, si soffoca la Parola e tutto si arresta.
Le altre realtà convivono accanto alla
parola e finiscono per avere il sopravvento e per soffocarla: la preoccupazione
e soprattutto l’illusione della ricchezza, ossia di “mamon”, del denaro.
v.
23: Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende;
questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno”.
Il quarto terreno è quello che dà frutto,
ma in proporzioni diverse (cento, sessanta, trenta). Uno studioso ha paragonato
questi tre rendimenti con l’osservanza del triplice comandamento che gli ebrei
ripetevano ogni giorno nella loro preghiera quotidiana: «Ascolta Israele,
amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la
tua forza». Nella comune interpretazione rabbinica “con tutta l’anima” significa
“perfino se egli ti strappa l’anima”, cioè fino al martirio; mentre “con tutta
la forza” significa “con tutte le tue ricchezze” (mamon).
Il versetto riprende la parte finale del
cap. 12: Chi è mia madre? Chi sono le mie sorelle ed i miei fratelli? È la
gente seduta attorno a Lui che ascolta la sua Parola e che compie la volontà di
Dio, che diventa uguale a Lui. Ascoltando la Parola diamo corpo a Dio nel
mondo, gli diamo vita, gli siamo madre, come la madre terra che germina il seme,
così ciascuno di noi fa germinare Dio nella propria vita, diventiamo madre e
poi diventiamo fratelli e sorelle di Gesù perché generando la Parola, divento
simile a Dio, divento figlio, divento come Gesù, suo fratello: ho prodotto il
cento, il sessanta, il trenta per uno.
Quelli che producono il cento sono coloro
che hanno un cuore talmente obbediente da sacrificare non solo la loro
proprietà (mamon), ma anche la cosa più preziosa di tutte, la loro vita
(anima), questi sono i martiri.
Quelli che producono il sessanta hanno un
cuore obbediente e danno via i loro averi, ma non si trovano nell’occasione di
dare le loro vite a causa della parola.
Quelli che producono il trenta hanno pure
un cuore obbediente e indiviso, ma non si trovano nell’occasione di offrire,
per amore di Dio, né la loro vita né la loro proprietà.
Questi tre aspetti segnano l’atto del
credere, attivo e perseverante: l’ascoltare, il comprendere e il portare frutto
ognuno secondo la propria misura.
 
Ci fermiamo in
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la
vita e la interpella

Quale è la mia capacità di conoscere e
comprendere la Parola di Dio?
Mi sento vicino a Gesù come un discepolo o
piuttosto distante, come le folle?
Ognuno di noi è un terreno diverso a
seconda delle situazioni della propria vita. In quali diverse occasioni sono
stato/a strada, terreno pietroso, spine, terreno buono?
Cosa ho saputo donare di me stesso/a
finora per dare spazio alla Parola di Dio?
 
Rispondi a Dio con le
sue stesse parole
(Pregare)
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
 
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge e benedici i suoi
germogli.
 
Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di
esultanza.      
 
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia! (Sal 64).
 
L’incontro
con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
La parola di Gesù germoglia e fruttifica in
cuori disponibili alla sua azione, ma non bisogna desistere nello scuotere il
torpore, l’indecisione e la durezza d’ascolto di molti credenti. 

 
 
 

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